Sekiro o dell’equilibrio, quello interiore, che ci serve per andare oltre la sua micidiale difficoltà, perché spazientirsi, inveire, perdere la concentrazione per un moto d’ira dopo l’ennesima sconfitta significa che la nuova opera di Hidetaka Miyazaki ci ha già battuto e non abbiamo speranza alcuna di sopravvivere alle sue trappole mortali. Ma non lasciate ogni speranza, voi che vi accingete a sfidare quello che è il videogame più puro e colloquiale del creatore di Dark Souls, proprio perché si tratta di un dialogo intimo e propedeutico tra autore e giocatore: Sekiro non è così ostico come può apparire, come le altre opere di questo severo mentore, e ancora di più, ci educa con durezza, come uno di quegli istruttori di arti marziali dei film sul kung fu, ma se perseveriamo, ascoltiamo, osserviamo «con gli occhi liberi dall’odio», non temiamo e accettiamo di imparare con umiltà, allora diverremo imbattibili, dei veri «shinobi» virtuali.
Sekiro, uscito per Xbox One e Playstation 4, è ambientato nel Giappone feudale ma contaminato da elementi magici che confermano la magnifica ossessione di Miyazaki per la letteratura di Lovecraft, qui miscelata con un misticismo buddista. Sekiro è lo shinobi, ossia un ninja, al servizio di un giovane principe il cui sangue incantato può garantire l’immortalità a chi ne usufruisce, starà quindi a noi che giochiamo proteggerlo, o almeno scegliere se farlo o no (ma chi non lo proteggerebbe?) da chi ambisce quel divino e nel contempo maledetto potere.
Il protagonista perde il braccio all’inizio del gioco e gli verrà sostituito da una protesi di legno che ci fa ricordare di Dororo, il samurai meccanizzato di Osamu Tezuka. La protesi è uno strumento utile da abbinare alla katana per elaborare le proprie strategie difensive e offensive e vi possiamo implementare le stelle ninja, una lancia, uno scudo-ombrello o degli utilissimi petardi che confondono per un battito di ciglia il nemico.
Intraprendiamo un viaggio attraverso villaggi piagati dalla guerra, castelli maledetti e solenni, foreste amene quanto perigliose, abissi rocciosi abitati da una serpe colossale, campi di battaglia riarsi, paesi lacustri dove gli abitanti sono piagati da un morbo spettrale, pendii nevosi dove scimmie crudeli ci osservano, e infine oltre, verso luoghi al confine tra l’umano e il divino.
L’esplorazione è appassionante per l’esotica bellezza e crudeltà dei panorami, sebbene sia un’attività rapsodica, interrotta da frequenti battaglie più o meno veloci, ma il viaggio può essere affrontato con una ritmica soggettiva grazie alla possibilità di agire celati, come farebbe ogni ninja, e di utilizzare un rampino per muoversi sui tetti, nascondersi tra i rami di un albero, ascendere ripide pareti rocciose. Occultarsi è fondamentale per sopravvivere ai gruppi di nemici più folti, per poterli eliminare silenziosamente uno a uno, un’attività che richiede tempo e favorisce momenti di rilassata dilatazione, di utile meditazione. Ma la quiete è interrotta dalle battaglie con i numerosi «boss» principali e secondari, scontri che richiederanno pazienza, concentrazione e tanto coraggio, perché questi avversari sono concepiti proprio per spaventarci e sovente ci possono annientare con un solo attacco.

DUELLI
È durante questi fenomenali duelli che dobbiamo dimostrare a noi stessi (e a Miyazaki che ci sta sfidando con una versione numerica di sé stesso)di avere appreso ogni lezione che il gioco ci ha impartito. Saremo sconfitti anche moltissime volte, ma qui davvero «ciò che non ci uccide ci fortifica»: impariamo a schivare quell’affondo devastante, apprendiamo a parare con virtuosismo ritmico ogni tempesta di fendenti, ci allontaniamo per evitare attacchi immediatamente letali. E lentamente riusciamo a reagire con la nostra katana, una solo spadata, al massimo due. In Sekiro è più importante la difesa che l’offesa, perché parare e schivare abilmente gli attacchi fa in modo che infine il nemico perda l’equilibrio, così che possiamo assestargli un colpo mortale, anche se per la maggior parte dei «boss» ce ne vogliono due o tre.
Sebbene sia possibile migliorare le proprie abilità e apprenderne di nuove e utili, così come acquisire ulteriori oggetti da applicare alla protesi, l’importanza della salita di livello è davvero relativa, perché limitata e quasi inconsistente; ad esempio la forza d’attacco aumenta solo dopo aver sconfitto i nemici principali e unicamente alla fine del gioco potremo migliorarla utilizzando i «punti abilità» grazie a un artefatto. Ma la potenza in più ottenuta in questo modo è solo minimale, in Sekiro si sale di livello grazie alla maestria acquisita perseverando: è più il giocatore a migliorare che il personaggio giocato.
Quando infine sconfiggiamo uno di questi formidabili nemici, dopo tanta fatica e «sofferenza», la soddisfazione che se ne ricava è un sentimento di ludica esaltazione che è rarissimo provare in altri videogame, un senso di vittoria che per pochi istanti ci fa dimenticare i dolori, le brutture e le storture della realtà, come quando un tifoso esulta per un gol segnato dalla sua squadra, salvo che qui non siamo allo stadio o davanti alla tv in una diretta stracolma di pubblicità, c’è invece l’avventura, c’è l’illusoria e bellissima convinzione di essere in un altrove remoto e pericoloso, meraviglioso e spaventoso. È per queste emozioni così potenti e travolgenti che finire Sekiro (chi scrive ci ha messo 110 ore di gioia e dolore) significa sentirsi dentro per qualche tempo uno strano «spleen», un’amara nostalgia per le imprese compiute; addirittura si può pensare che gli altri videogame, anche quelli di valore o persino migliori di Sekiro, siano superflui. Poi per fortuna passa.

PER TUTTI
Dopo Demon’s Souls, tre Dark Souls e Bloodborne (così diversi eppure così vicini a quest’ultima opera) Hidataka Miyazaki e From Software, questa volta distribuiti curiosamente da Activision, il colosso americano del deludente Call of Duty, dimostrano ancora una volta di essere inventori di mondi architettati e disegnati in maniera straordinaria, fautori di un gioco filosofico e dialettico, ermetico e profondo, durissimo e appagante.
Sekiro è un’esperienza che chiunque non si spaventi di fronte alle prime difficoltà dovrebbe provare, perché malgrado la sua sanguinaria violenza (d’altronde si parla di ninja e samurai) è un gioco per tutti, dall’adolescente «strafatto» di Fortnite che può in esso ritrovare la quiete della sconnessione, al giocatore più maturo, che si rammenterà delle «antiche» sfide di un tempo, da bambino, di fronte a un cabinato con pochi gettoni in tasca.
È davvero sbagliato pensare che Sekiro sia un gioco per un élite di campioni, è invece un gioco inclusivo per quanto sia punitivo, e persino il meno dotato con il controller può imparare a sconfiggerlo, vivendo una grandiosa avventura. Sekiro ci insegna a non avere paura, a lottare contro minacce che appaiono insormontabili. È solo un videogioco, tuttavia anche una lezione di vita.