Quali furono i pittori attivi a Venezia nel corso del Seicento? Cosa successe in Laguna dopo Tiziano e prima di Tiepolo? Se anche riuscissimo a recuperare dai ricordi del manuale scolastico i nomi di alcuni artisti operanti nella Serenissima del diciassettesimo secolo, artisti come Pietro Liberi, Antonio Zanchi, Francesco Ruschi, Giulio Carpioni, noteremmo subito, un po’ delusi, che non solo questi nomi non contendono affatto la fama ai loro predecessori e successori lagunari, ma nemmeno ai loro contemporanei di Bologna, Napoli e Genova, o ai campioni romani (tutti adottivi) del barocco trionfante: Bernini, Pietro da Cortona e Borromini.
Prima esposizione nel 1959
«Fra i cinque secoli» della vicenda artistica veneziana, osservava Roberto Longhi nel 1946, il Seicento era di certo «il meno brillante», nulla di più di un «fenomeno di impuntatura culturale», perché troppo rivolto all’indietro, inutile per spiegare quello che sarebbe fiorito in seguito, tanto locale e autocentrato quanto refrattario a cogliere le migliori suggestioni europee dell’epoca. Un giudizio molto severo e, di certo, largamente responsabile della marginalità alla quale gli storici dell’arte hanno relegato negli studi novecenteschi questa produzione pittorica e scultorea, con i suoi protagonisti. Tanto più che dobbiamo attendere addirittura il 1959 per la prima esposizione organizzata su questo tema, ora al centro di una bella mostra al Musée Fesch des Beaux-Arts di Ajaccio: Rencontres à Venise Étrangers et Vénitiens dans l’art du XVIIe siècle (catalogo Silvana, euro 28,00).
In realtà, in tempi piuttosto recenti, la pittura veneziana del Seicento, per molti versi malferma e ‘di passaggio’, è stata trasformata nell’ottimo banco di prova dove mettere a fuoco (indagando nelle pieghe) alcuni meccanismi artistici legati al revival e alla pratica delle copie, così come per verificare sistemi culturali ruotanti intorno alla committenza e al mercato, o al mondo delle accademie letterarie. Per intenderci: aspetti di ricerca che scorrono piuttosto lungo i binari seicenteschi della ricezione della tradizione veneziana rinascimentale (la diffusione di falsi, l’attenzione ai generi), senza soffermarsi troppo sullo stile e sulla qualità della ‘nuova’ pittura contemporanea, quella soprattutto che prese avvio dagli anni venti del diciassettesimo secolo, morto Palma il Giovane ed esauritisi gli ultimi aneliti di manierismo.
Su questa qualità punta invece l’attenzione l’evento espositivo che da ha luogo nella seducente cornice del Palais Fesch, e che chiuderà il sipario l’1 ottobre, proprio mentre a Venezia, tra Palazzo Ducale e Gallerie dell’Accademia, sono state da poco inaugurate due mostre dedicate all’ultimo grande maestro del Cinquecento lagunare, Jacopo Tintoretto. Prevista dal direttore del museo Philippe Costamagna all’interno di una serie di iniziative che negli anni scorsi hanno prodotto importanti approfondimenti monografici sulla pittura barocca fiorentina e lombarda, la mostra corsa è stata affidata alla curatela scientifica di due studiose italiane, Linda Borean e Stefania Mason, note per i loro affondi sul collezionismo veneziano del Seicento, che hanno scelto però in questa sede di affrontare di petto l’ampio tema della produzione artistica lagunare del diciassettesimo secolo, senza imporre allo spettatore particolari filtri culturali o sociali, e puntando su opere di invenzione: né copie dei grandi maestri, né vicende figurative seriali.
Le rigide categorie di Pallucchini
L’esposizione di dimensioni contenute (una sessantina di pezzi) ma di ottima raffinatezza visiva, non rinuncia a un impianto vagamente cronologico, in un percorso che scollina nel diciottesimo secolo, approdando a Sebastiano Ricci, e si articola intorno ad alcune sezioni iconografiche a maglie larghe: visioni terrene e celesti, morti, sacralità e profanità, allegorie. Dunque, né propriamente per generi (l’unica eccezione è la sala dedicata ai ritratti), né propriamente per ‘correnti’ (come i ‘tenebrosi’ o i ‘chiaristi’), né per enucleazioni didascaliche (solo al tema dei processi creativi è concesso una riflessione a parte, con terrecotte e bozzetti), con il risultato non solo di esaltare nel loro plurilinguismo epopee e tragedie, passioni e (anche) frivolezze del mondo lagunare, ma soprattutto di aggirare con rispetto le rigide categorie con le quali Rodolfo Pallucchini nella sua corposa monografia del 1981 sulla pittura veneziana del Seicento aveva cercato di fare ordine all’interno di un tessuto assolutamente vibrante e caleidoscopico, per echi figurativi e debiti con la tradizione.
Un tessuto che l’esposizione vuole celebrare proprio nei suoi intrecci, più che per via di etichette, insistendo innanzitutto sull’importanza che rivestì nella cultura visiva veneziana il dialogo incessante tra artisti nati nella Serenissima e nutriti dal patrimonio artistico locale, e i cosiddetti ‘foresti’, ovvero quanti vennero da fuori (da Roma, Napoli, Genova, ma anche dalla Germania, dalla Francia e dalle Fiandre) e furono presenti in Laguna per vie molteplici: inviando opere, transitandovi brevemente, oppure restandovi fino alla morte e diventando interpreti altissimi della sua tradizione pittorica, come nel caso di Johann Liss. Anticipatore inconsapevole di Giambattista Piazzetta, l’artista tedesco è ricordato ad Ajaccio con alcune opere importanti, tra le quali la Visione di san Gerolamo dalla chiesa di San Nicola da Tolentino e il Ritrovamento di Mosè da Lille: opere che tra nuvole colorate, stoffe damascate intessute di luce e incarnati vibranti e tonali confermano la lettura del suo stile data già a fine Seicento dal pittore suo conterraneo Joachim von Sandrart, il quale sottolineò di Liss i debiti tizianeschi e veronesiani. Ma soprattutto l’amore per Domenico Fetti, altro ‘foresto’ (questa volta romano) attratto dalla Laguna e dalle sue melanconie, e ben documentato nell’esposizione corsa. Annunciato ad apertura di mostra dall’opera (inedita) firmata e datata di Joseph Heintz il Giovane, raffigurante una scena veneziana di speziata coralità, questo panorama polifonico di anime, geografie e maniere non è solo indagato dalle curatrici per quanto riguarda la pittura, ma anche (grazie alla collaborazione di Andrea Bacchi) per la scultura, valorizzando artisti come il genovese Filippo Parodi, documentato a Venezia negli anni ottanta del Seicento; o il fiammingo Giusto Le Court, attivo in città per un ventennio, prima di trovarvi la morte; oppure come Piazzetta, il padre questa volta, ovvero l’intagliatore in legno e modellatore in creta Giacomo.
Rivelazione da Saint-Quentin
Tra profili stilistici che sembrano continuamente sfuggire a una definizione (Pietro della Vecchia), o che si impongono per la loro efferatezza (il genovese Giambattista Langetti), e ritrattisti quali Tiberio Tinelli, raffinato osservatore delle novità vandickiane, la mostra riesce anche ad ampliare il catalogo pallucchiniano, e lo fa intelligentemente selezionando, oltre a opere inedite di collezioni private, diversi prestiti semisconosciuti da musei della provincia francese, depositaria talvolta di autentiche rivelazioni, come lo Zanchi della Morte di Lucrezia a Saint-Quentin. Una riprova ulteriore della relativa sfortuna di questa produzione pittorica, relegata nell’arco degli anni in sedi espositive marginali. Ed è proprio la generosità di queste riscoperte a spostare legittimamente l’asse del catalogo sulla Francia, lasciando solo sullo sfondo il dialogo della Venezia tardoseicentesca con la Vienna imperiale e i territori germanici. Un dialogo destinato, però, ad avere tanta parte nel Settecento pronto a sbocciare.