Tra le norme imposte all’università dalla riforma Gelmini, quella sui cosiddetti “punti organico” è una delle più strutturali. Sulla base dell’accreditamento di tali “punti” avviene la distribuzione del 20% della quota base del Fondo di Finanziamento Ordinario per ciascun ateneo. Da questi fondi deriva, tra l’altro, le possibilità di assunzioni di nuovi ricercatori o docenti. Per misurarlo però sono fondamentali gli studenti regolarmente iscritti. Loro valgono un punto. Gli iscritti part-time “valgono” la metà. Quelli fuori corso niente. Sono banditi. Sugli studenti che rispettano esami e scadenze si determina un “costo standard” che rappresenta il tassello fondamentale del nuovo metodo di ripartizione dei finanziamenti alle università statali, introdotto dalla riforma Gelmini.

Per calcolarlo il Ministero dell’università (Miur) ricorre ad altri fattori: quello delle attività didattiche e di ricerca, calcolato in base al costo del personale docente strutturato e quello precario a contratto. Poi ci sono le dotazioni infrastrutturali, un parametro che tiene conto di alcune spese fisse dell’ateneo, degli studenti che frequentano i corsi e della loro tipologia. Infine ci sono i collaboratori ed esperti linguistici; gli specialisti nelle classi di laurea magistrale a ciclo unico di Scienze della formazione primaria e di Conservazione e restauro dei beni culturali; il numero di tutor per i corsi di studio a distanza. Dal complesso calcolo di questi fattori deriva il finanziamento che premia ogni anno gli atenei.

Per il Coordinamento universitario Link e l’associazione dottorandi italiani (Adi), il decreto pubblicato in ritardo il 23 dicembre scorso, quando molti atenei avevano già approvato i bilanci di previsione, esclude i fuoricorso dal totale di studenti per cui l’ateneo riceverà i finanziamenti. Questo significa che gli atenei che vorranno accedere a questi fondi – necessari come l’aria dopo i tagli colossali da 1,1 miliardi di euro effettuati in epoca Gelmini – stringeranno la loro morsa su di loro. La punizione inflitta dal Miur all’ateneo colpirà, a cascata, gli studenti part-time e i fuoricorso che rappresentano la maggioranza degli iscritti nell’università italiana. Pur giudicando come una «novità molto positiva» la previsione contenuta nel decreto di una soglia minima di turn over del 10% («garantisce una, sebbene minima, possibilità di assumere nuovo personale a tutti gli atenei»), Adi e Link criticano l’impianto complessivo del decreto. Per loro, la soglia a livello nazionale del 50% è troppo bassa per sopperire alle carenza di personale nel sistema universitario.

Poi c’è la scelta di legare il turn-over degli atenei esclusivamente a indicatori di sostenibilità economico-finanziaria, indipendentemente dal loro reale fabbisogno. Questo è in effetti il cuore della riforma Gelmini. «In questo decreto non c’è la volontà di perseguire obiettivi di sostenibilità del sistema nel suo complesso, bensì la semplice esigenza di tagliare la spesa pubblica e determinare, in questo modo, il declassamento e la scomparsa di molti atenei a favore di poche e accuratamente individuate realtà accademiche» sostengono Antonio Bonatesta, Segretario nazionale Adi ed Alberto Campailla, portavoce di Link. Gli atenei in difficoltà saranno «costretti ad aumentare le tasse per migliorare tale indicatore che permette loro di accedere ad un contingente più elevato di punti organico».