Una sola cosa appare certa in Libia: la tregua mediata da russi e turchi l’8 gennaio scorso, che il summit internazionale di Berlino undici giorni dopo avrebbe dovuto rafforzare, non esiste più ormai da un mese.

Martedì sera colpi di mortaio sparati dall’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) del generale Haftar sono caduti nei quartieri meridionali di Tripoli di an-Nuafleen e Suq al-Ju’am causando interruzioni di elettricità. Bombardamenti dell’Enl sono diventati una costante anche nell’area tra Misurata e Abugrein.

L’obiettivo qui è chiaro: colpire e indebolire le milizie di Misurata che sostengono il Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto internazionalmente di Sarraj per poi riuscire a vincere la partita di Tripoli. Qui gli uomini di Haftar, che da mesi assediano la parte meridionale, non riescono a sfondare nel centro della città. Anche perché in soccorso di Sarraj ci sono i turchi e 3mila mercenari siriani (per lo più islamisti).

La guerra libica è brutale al punto che a farne le spese sono anche le scuole. L’ultima a essere presa di mira è stata quella del paesino di Abu Issa (40 km da Tripoli): tre studenti sono rimasti feriti lunedì mattina in seguito a una esplosione. A salire sul banco degli imputati per la situazione di caos in corso nel paese è soprattutto il generale della Cirenaica.

Accusato dalla compagnia petrolifera libica (Noc) per le «chiusure illegali» degli impianti petroliferi dello scorso 18 gennaio che hanno causato perdite pari a 1,325 miliardi di dollari, a puntargli il dito contro è stato ieri l’Onu che ha espresso «rammarico» per il fatto che l’Enl abbia impedito «in diverse occasioni nelle ultime settimane» l’atterraggio di voli che trasportano il suo personale da e verso la Libia.

Ben più gravi però per Haftar sono le notizie che arrivano dall’altra parte dell’oceano: lunedì sei famiglie libiche residenti negli Stati uniti hanno avviato una causa legale contro di lui e gli Emirati arabi per «crimini di guerra». Le famiglie, che hanno avuto un parente ucciso o ferito nei combattimenti, chiedono un rimborso di un miliardo di dollari per i danni subiti.

«Faremo luce sui gravi abusi dei diritti umani, le uccisioni extragiudiziali e la tortura che gli accusati hanno compiuto in totale impunità e senza temere di dover essere ritenuti responsabili» ha detto l’avvocato Martin F. McMahon. «Haftar – ha poi aggiunto – non è solo un criminale di guerra, ma anche un cittadino statunitense con beni e familiari qui negli Usa».

Se le armi non tacciono è perché la diplomazia è inconsistente. Ieri il ministro degli esteri italiano Di Maio è tornato per la seconda volta a Tripoli (oggi dovrebbe incontrare Haftar a Bengasi), ma la sua missione diplomatica – riassumibile nei mantra «no a interferenze straniere», «soluzione politica, non militare» e «sostegno al processo di Berlino» – è parsa più una risposta ai francesi avvicinatisi negli ultimi giorni al Gna (Parigi ha sempre sostenuto ufficiosamente Haftar).

A voler giocare un ruolo da protagonista nella vicenda libica non è solo l’Europa, ma anche l’Unione africana che ha ribadito la scorsa domenica ad Addis Abeba la convocazione di un forum intra-libico.

In attesa del secondo round di incontri del Comitato congiunto militare 5+5 (cinque rappresentanti del Gna e altrettanti dell’Enl) il prossimo 18 febbraio a Ginevra, nel momento in cui chiudiamo il giornale, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sta votando per un progetto di risoluzione del conflitto proposto dal Regno unito, il cui primo passo è il cessate il fuoco nel paese nordafricano secondo i risultati del summit di Berlino.