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Sei concettuale o pittorialista? Un viaggio plurale

Sei concettuale o pittorialista?  Un viaggio pluraleGillian Wearing, Self portrait at 17 years old, 2003

Fotografia Dall’Ottocento a oggi, il ruolo centrale della fotografia come forma d’arte: un saggio Einaudi di David Bate, non allineato alla teoria «indicale» di Rosalind Krauss

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 20 maggio 2018

Il titolo italiano del nuovo libro di David Bate, La fotografia d’arte (Einaudi «Saggi», pp. 238, € 44,00), può generare – a differenza dell’originario Art Photography – equivoci interpretativi: si dedica infatti non alla fotografia che documenta opere d’arte, bensì alla fotografia come forma d’arte. In altri termini, Bate indaga il ruolo centrale assunto dalla fotografia nel mondo dell’arte e le modalità con cui fotografia e arte hanno incrociato i loro percorsi, a partire dall’invenzione del medium fotografico fino a oggi. Significativa al riguardo è già l’immagine di Tom Hunter scelta per la copertina italiana – Donna che legge l’ordinanza di sfratto (1998) –, che cita, con un taglio attento alle contraddizioni sociali contemporanee, il celebre quadro di Vermeer, Ragazza che legge una lettera davanti alla finestra aperta; al tempo stesso ci fa comprendere come il pittore olandese sapesse creare dipinti che anticipavano la precisione illusionistica della fotografia. Insomma, una simile immagine è già di per sé simbolica dei molteplici intrecci tra arte e fotografia, che vengono trattati dall’autore in modo non cronologico, bensì tematico, spiazzando a volte il lettore con accostamenti inaspettati (e qualche volta discutibili) tra autori spesso molto diversi tra loro e con capitoli a loro volta non scontati.
Più che spiegare come e perché alcune fotografie siano entrate nel sistema dell’arte e altre no, Bate guida il lettore in un viaggio che vuole evidenziare le molteplici potenzialità della fotografia intesa come universo plurale. Cosa questa per niente scontata dato che, sulla scia delle importanti teorizzazioni (a partire dagli anni novanta) di Rosalind Krauss, molti critici hanno sottolineato soprattutto il carattere «indicale» della fotografia, come se la sua vera natura fosse quella, e solo quella, di agire come un indice, ovvero di presentarsi come una traccia della realtà. Un traccia, sia chiaro, che non copia ma «raddoppia» la realtà, creando uno scarto e una differenza interna, una «spaziatura» (Krauss) tra l’oggetto fotografato e il suo referente reale.
A partire da tale statuto ontologico, preso spesso come assunto indiscutibile, molti testi sulla fotografia esaltano i primi fotografi, per poi slanciarsi contro il movimento fotografico del Pittorialismo, reo di non puntare a una precisione documentaria, per creare invece chiaroscuri atmosferici e stampe elaborate: il che significherebbe tradire la fotografia per «copiare» l’arte, anziché rimanere fedeli allo statuto fotografico. Ebbene, David Bate – e in questo consiste uno dei pregi del libro – osa uscire dal coro e scompaginare le carte, tanto che uno dei primi capitoli è dedicato proprio all’importante «svolta del pittorialismo», visto come il primo, ampio movimento internazionale di una fotografia che condivide i soggetti e le problematiche artistiche degli impressionisti, dei preraffaelliti, dei secessionisti viennesi e, aggiungerei, dei simbolisti. Oltretutto questo movimento – proprio perché puntava all’immagine singola e non alla serie; alla messa in scena e non allo scatto rubato – anticipava in molti suoi aspetti le opere di acclamati autori contemporanei, tra cui Jeff Wall. Figura chiave della fotografia d’arte, Wall crea immagini di immobilità raggelata, simili a stranianti frame di film ambientati nella vita quotidiana; ambiguamente sospese tra fatto e artificio, tra illusionismo e realtà, le sue immagini, pur verosimili, sono però costruite con precise messe in scena e manipolazioni digitali, che richiamerebbero le opere di un pittorialista come Henry P. Robinson, il quale, già nel 1858, aveva «composto» Spegnersi assemblando in modo illusionistico ben cinque negativi diversi. Una pratica, quella di comporre più negativi in un’unica stampa, ampiamente usata – ben prima di photoshop – da molti autori storici. Il che mette ovviamente in discussione quella che si potrebbe definire la temporalità unica della fotografia, cioè la sua supposta vocazione di fissare, attraverso uno scatto, un preciso momento del continuum temporale.
Non si creda però che Bate sia un sostenitore della fotografia estetica più o meno manipolata. A controbilanciare il capitolo sul pittorialismo ne intervengono altri, come quello dedicato al rapporto proficuo tra arte concettuale e fotografia; oppure quello su «L’arte del documento»: ovvero quella fotografia entrata nel sistema dell’arte proprio perché anti-estetica e capace di funzionare come una presenza interrogativa e ambigua. E qui il rimando immancabile è a Eugène Atget, che vendeva a fatica le sue fotografie documentarie su Parigi, prima di essere scoperto dai surrealisti che lo videro invece come un pioniere di opere dove la realtà appariva nella sua straniante evidenza. Per quanto affrettato in alcuni passaggi teorici – che semplificano un po’ troppo il pensiero di filosofi come Benjamin, Foucault, Derrida e soprattutto il più volte citato Jacques Rancière – il saggio di David Bate è in ogni caso pregevole per il ricco apparato fotografico, per la sua impostazione innovativa, nonché per la chiara lettura interpretativa di tanti autori significativi.

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