Abbiamo incontrato Keywan Karimi, giovane regista kurdo iraniano, vincitore di diversi premi internazionali, autore di documentari dal forte taglio sociale. Keywan ha già scontato con il carcere il suo impegno politico. Ora, rischia sei anni di prigione e 223 frustate a causa dei suoi film. Nelle prossime settimane arriverà la sentenza definitiva. Tutto questo alla vigilia del voto in Turchia dove il fattore kurdo è essenziale in seguito all’affermazione elettorale del Partito democratico dei Popoli (Hdp) dello scorso giugno e alla violenta campagna anti-Pkk, voluta da Erdogan. Anche in Iran, molti kurdi pagano a caro prezzo il loro impegno politico.

Keywan, come vive la minoranza kurda questa stagione politica?
I kurdi sono in tutto e per tutto cittadini di seconda classe. Subiscono continue discriminazioni, per esempio sul posto di lavoro. Certo, la costituzione iraniana protegge i kurdi come anche le altre minoranze, ma per decenni è rimasta lettera morta. I kurdi si trovano in una situazione difficile. Il Kurdistan iraniano è una delle regioni meno sviluppate del paese, c’è d’altra parte, una grande consapevolezza politica da parte nella nostra gente: i kurdi vogliono avere un ruolo da protagonisti nel futuro. Molti dei nostri giovani studiano all’università, altri ancora sono artisti o attivisti. In tutte le università del paese ci sono studenti kurdi, e questo ha una ragione: vogliono cambiare la loro condizione e la loro posizione grazie allo studio e alla cultura. E non necessariamente con la lotta o i fucili, come sostiene il regime iraniano. È da un secolo che i diversi governi al potere nel paese accusano i kurdi di darsi alla lotta armata, ma la verità è molto diversa. I kurdi, quando necessario, hanno difeso la loro terra e le loro case, ma non hanno mai attaccato per primi.

Crede di essere stato in carcere e vicino ad una nuova condanna per la tua identità kurda?
Non lo so. Questo dovrebbe chiederlo alla Corte e al giudice. Scherzi a parte, molto probabilmente è così, come anche il fatto di essere sunnita in un paese a maggioranza sciita. Ho un legame molto forte con la mia terra e con la mia lingua. Ho scritto anche diverse storie in kurdo: oltre a fare dei film, sono uno scrittore. Un mio documentario, Broken border, era girato nella frontiera fra il Kurdistan iraniano e quello iracheno e in quel caso trattavo i problemi sociali di queste terre.

Come spiega la persecuzione che sta subendo?
I casi sono due. O si tratta di una Corte che si accanisce contro i miei film e contro di me, senza avere compreso né gli uni né l’altro. Oppure si tratta di una decisione presa a un livello più alto, governativo. In questo secondo caso, non c’è davvero nulla da fare: devo solo aspettare il verdetto, ma finirò comunque in carcere. Nel primo caso, invece, ho ancora qualche speranza.
Crede che con l’arrivo al potere di Rohani e l’accordo sul nucleare Si sia verificato un miglioramento in Iran rispetto all’epoca di Ahmadinejad?
Dopo l’elezione di Rohani in Iran c’erano grandi aspettative. La gente sperava si verificassero cambiamenti dal punto di vista sociale ed economico. Ma a più di due anni dall’elezione del nuovo presidente, tutto è rimasto uguale, dai salari troppo bassi ai problemi di sempre. Come ha scritto Walter Benjamin, citando Kafka: «Vi è un’infinita speranza, ma non per noi». Questo è valido anche in Iran.

Quando sono iniziati i suoi problemi con la legge?
Anni fa ho lavorato a Writing on the City, un documentario sui graffiti di Tehran dalla rivoluzione islamica fino alle elezioni contestate del 2009. Trovavo che fosse un argomento interessante per farci un film. Questo era prodotto con il supporto dell’università di Tehran. Non ho studiato arte o cinema, provengo da studi di sociologia, e questo ha segnato il mio modo di vedere il mondo e di fare cinema. Per realizzarlo, ho lavorato sugli archivi storici, chiedendo tutti i permessi necessari, incluso quello di fare riprese nelle strade della capitale. Nel 2013, dopo aver completato il film e aver caricato il trailer su YouTube, sono iniziati i problemi. All’inizio erano solo chiamate, da parte ad esempio del ministero della Cultura, in cui si contestava il mio lavoro. In un primo momento, sembrava tutto sotto controllo.

Poi nel dicembre 2013 le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nel mio appartamento. Hanno confiscato tutte le mie cose, dal mio portatile ai miei Dvd, fino ai miei effetti personali e ai miei documenti. Insieme ad essi, anche molto materiale di progetti passati e futuri, ma anche foto mie, della mia compagna e della famiglia. Quando poi me le hanno restituite, molti lavori erano stati cancellati dalla memoria del computer. In seguito, sono finito in carcere. Dopo esser stato rilasciato, è iniziata la mia lunga vicenda giudiziaria. Due settimana fa è arrivato il verdetto: sei anni di carcere e 223 frustate. La sentenza definitiva arriverà fra novembre e dicembre. La prima motivazione del verdetto è basata sul film Writing on the City, che viene definito propaganda contro il governo. L’altra invece è di blasfemia, per un progetto che non ho neppure concluso, ma di cui ho solo discusso su Skype e via email.