Non pochi ma non abbastanza. Il voto segreto, chiesto dal gruppo Mdp, non è riuscito a fermare la legge elettorale. Né i franchi tiratori, meno di cinquanta, né gli assenti, una ventina, hanno tolto i voti sufficienti alla maggioranza formata da Pd, Forza Italia, Lega, Ap più i piccoli, decisivi, gruppi come ex montiani, fittiani e verdiniani. La camera ha approvato in prima lettura il Rosatellum, ieri sera poco prima delle nove e trenta. Grillo è rimasto in albergo, Di Maio e Di Battista, che hanno scavalcato le transenne per parlare alla piccola folla di militanti 5 Stelle rimasta nella piazza di Montecitorio, hanno potuto dire solo «non abbiamo piegato la testa». Vittoria, questa volta, no.

Probabilmente non ha aiutato l’ultimo appello che proprio Di Maio ha fatto ai franchi tiratori nel suo intervento in aula, definendoli umiliati e poltronisti. Ma a quel punto erano già andate a segno le contromisure della maggioranza Pd, un misto di blandizie – con un centinaio di seggi sicuri da promettere – e minacce – perché il voto non è mai completamente segreto al vicino di banco. Inutilmente Bersani, intervenendo in aula, aveva provato con tutt’altra strategia a promettere che nel caso di bocciatura della legge non ci sarebbe stato «nessun caos, ma soluzioni più giuste a portata di mano». Alla fine al conto dei 375 favorevoli (sulla carta dovevano essere circa 65 in più, rispetto ai 308 voti palesi per la fiducia) sono mancati quasi in egual misura voti del Pd e di Forza Italia. In parallelo i contrari, sulla carta circa 150, sono cresciuti di una sessantina abbondante: 215.

Né si può escludere che ci sia stato qualche franco tiratore al contrario, ma eventualmente da contare sulle dita di una mano e da cercare tra i sostenitori di Pisapia. Presenti per marcare il territorio i capi corrente, il ministro Franceschini tutta la giornata, il ministro Alfano sul finale.

Eppure la quota di malumori registrata nei capannelli in Transatlantico era assai superiore. Con l’occhio ai destini personali, visto che per i parlamentari del Pd al nord sarà quasi impossibile mantenere il seggio. Mentre ai berlusconiani del sud ha dedicato un pensiero il capogruppo in commissione Sisto, aleggiando in via preventiva l’eroico sacrificio. Ma anche per valutazioni più politiche generali. Questo sistema, ed è opinione diffusa tra i democratici, favorisce soprattutto il centrodestra. E non convince che lo strappo della fiducia sia stato utilizzato per approvare una legge che non consentirà al Pd di vincere. Tutt’al più farà perdere i 5 Stelle e terrà vivo Berlusconi in vista di un governo di larghe intese.

Anche la certezza che i grillini siano deboli nelle sfide uninominali un po’ vacilla. Sarà per le urla della piazza, che arrivano attutite nel Palazzo. Sarà perché ormai tutti conoscono la futura scheda elettorale, dove il simbolo del Movimento 5 Stelle è ben più evidente del nome (magari non fortissimo) del candidato grillino nel collegio.

L’unica distrazione, in un pomeriggio scivolato nell’attesa del voto finale, l’ha offerta la norma ribattezzata frettolosamente salva Verdini, contenuta in un emendamento di Ap approvato sabato in commissione. Senza che nessuno avesse sollevato obiezioni. In effetti è assai strano prevedere che possa candidarsi all’estero anche un cittadino residente in Italia, dal momento che la (contestata) legge Tremaglia è stata fatta per portare nel parlamento nazionale i rappresentanti delle comunità italiane all’estero. Malgrado il tardivo scandalo, nessuno ha presentato emendamenti in aula per cancellarla: non c’era fiducia sull’articolo 5 e si sarebbero potuti discutere e votare. Se n’è parlato solo perché il relatore ha voluto correggere l’articolo in un altro punto, abbassando da dieci a cinque gli anni di incandidabilità per chi ha avuto precedenti incarichi (di governo o elettivi) all’estero.

La modifica consentirà alla deputata Bueno, eletta in Sud America, di ricandidarsi. Era stata lei a denunciare il tentativo di escluderla (ma l’incandidabilità nella prima versione avrebbe colpito anche il senatore Zin, fino al 2009 ministro della salute a Buenos Aires) per fare posto a Verdini. Il quale, dicono i suoi deputati, sta pensando al contrario di non ricandidarsi, né all’estero né in Italia. Anche a non voler credere a questa candida intenzione, è incredibile che l’ex braccio destro di Berlusconi abbia voglia di andare a cercare tutte le preferenze che servono per essere eletti nella circoscrizione America del Sud, tra le 70 e le 18mila. Meglio un seggio sicuro in patria.