Che Silvio Berlusconi non abbia ancora deciso di dimettersi prima del voto dell’aula del senato sulla sua decadenza, come pure suggeriva ieri il Giornale della famiglia, lo prova la cura che gli esponenti del Pdl stanno mettendo nel respingere qualsiasi ipotesi che sul Cavaliere si possa votare a scrutinio palese. È soprattutto l’ala «governista» del partito di Berlusconi – Schifani, Gelmini – a impegnarsi perché il «presidente» autorecluso ad Arcore possa continuare a nutrire la speranza di essere clamorosamente salvato dai franchi tiratori. E confermarsi così nella decisione di non far saltare il banco. Ad aiutare quest’opera di protezione delle larghe intese si è dedicato ieri direttamente il presidente del Consiglio. Dal programma televisivo di Vespa, Enrico Letta ha prima spiegato che il governo non deve entrare nelle questioni del parlamento, ma poi ha aggiunto che nella decisione tra voto segreto e voto palese «le regole si applicano come sono scritte». Proprio quello che chiede il Pdl.

Le regole «scritte», il terzo comma dell’articolo 113 del regolamento del senato, chiariscono che «sono effettuate a scrutinio segreto le votazioni comunque riguardanti persone». E il discorso sarebbe chiuso qui, a meno di non trovare lo spazio per una lettura ragionata dei precedenti e dei «pareri» espressi nel tempo dalla giunta del regolamento (vedi l’articolo qui sotto). Il Pdl si impunta, sperando di raccogliere nell’ombra i voti dei senatori disponibili a salvare il Cavaliere, magari per dare la spallata finale alle larghe intese e alla dirigenza Pd. Guardando a chi ne avrebbe la convenienza immediata, allora, i primi sospettati potrebbero essere i grillini e i renziani. I grillini però, proprio per allontanare questo sospetto e magari ben sapendo che non se ne farà niente, propongo (ma solo da oggi) una modifica al regolamento, che ha tempi per nulla brevi (a meno di auspicare un blitz a colpi di maggioranza contra personam). I 5 Stelle fanno anche parecchia confusione, per esempio se la prendono con il comma del regolamento che prevede la richiesta del voto segreto da parte di 20 senatori (che in questo caso non c’entra niente). Lo fa il deputato Di Maio, e in più suggerisce ai colleghi grillini del senato di abbandonare l’aula al momento del voto «per lasciare Pd e Pdl a scannarsi». Un colpo di genio: in questo caso i berlusconiani dovrebbero recuperare non più quaranta voti ma solo cinque o sei. Suggerimento respinto e ironie dei senatori a 5 stelle verso il collega, che è anche vicepresidente della camera.

In serata anche D’Alema si schiera per il voto segreto, spiegando che modifiche in corsa al regolamento non sarebbero un bel vedere. Il Pd non ha una posizione unitaria sul problema, tantomeno ufficiale. Una preoccupazione evidente però sì, ed è quella di non impiccarsi ai voti segreti. Il precedente illustre della conta per il Quirinale autorizza un certo pessimismo, anche se gli inarrestabili scatti in aula con i telefonini rendono tutto più difficile. La linea dei democratici – grillini mandati avanti e vediamo quel che accade – si ritrova nelle parole del presidente del senato Grasso. «Il voto personale è segreto – ha ripetuto ieri – ma se le forze politiche trovano la maggioranza per cambiare la regola non mi opporrò». Un’apertura, accompagnata dalla disponibilità a «qualsiasi iniziativa» come convocare d’urgenza la giunta per il regolamento. Troppo per il Pdl, che iscrive rapidamente Grasso alla lista degli avversari del Cavaliere, e lo accusa di scorrettezza. Mentre Schifani si fa paladino del voto segreto anche ingaggiando una lite a distanza con il presidente del parlamento europeo Schulz.

Intanto il dibattito in giunta sulla decadenza si avvicina alla conclusione, ma non è più il centro dell’attenzione. Oggi ultimi interventi, domani replica del relatore e in serata sul tardi il voto che segnerà certamente la bocciatura della proposta favorevole a Berlusconi. L’interesse è solo per la reazione dell’interessato che, a sentire proprio il relatore Augello, «sta riflettendo su una decisione importante: se confermare la fiducia al governo, se rimanere in carica, se aspettare il voto». Difficilmente sarà una riflessione rapida.