Un uomo legato mani e piedi, imbavagliato, steso per terra sul parquet, respira affannosamente con uno sguardo che sembra far trasparire un sentimento di paura. Una donna, il cui volto è nascosto nell’ombra, lo sovrasta e gli dona dolore misto a piacere spegnendogli una sigaretta sul petto e urinandogli addosso. L’uomo in questione è Chuck Rhoades (Paul Giamatti), Procuratore statale del Distretto Sud di Ny, uno che tiene alla propria immagine e a raccogliere consensi e potere.

Non tanto lontano, di giorno, un altro uomo mangia una pizza. Il proprietario del locale è in grave difficoltà e Bobby «Axe» Axelrod (Damian Lewis), questo il nome dell’avventore, decide di aiutarlo diventando socio del ristorante. È un benefattore? È un inguaribile romantico che ricorda gli anni trascorsi in quella pizzeria italiana? O semplicemente vuole nascondere, a se stesso e agli altri, ciò che in realtà è: uno squalo della finanza?
Axe è ricco, ha una moglie, Lara (Malin Akerman), con cui sembra stare bene, e due figli che lo adorano. Chuck, nonostante una condizione sociale e personale invidiabile, non sembra altrettanto sereno anche perché sua moglie, Wendy (Maggie Siff), lavora per la società di Axe, nella gestione e motivazione del personale.

Questi due personaggi sono i protagonisti di una nuova serie tv statunitense, Billions, in onda negli Usa dal 17 gennaio, creata dal trio Brian Koppelman, David Levien e Andrew Ross Sorkin. A un primo sguardo, la fiction racconta il mondo della finanza, che in questi ultimi anni è diventato dolorosamente familiare, giocando sul duello tra un procuratore attento a non perdere il suo curriculum immacolato (tutte vittorie e neanche una sconfitta in tribunale) e un miliardario che si è fatto da solo e ha scalato la vetta in modo alquanto dubbio, senza però aver concesso ai pochi avversari e detrattori alcuna prova dei suoi presunti reati.
Al contrario dei film che hanno trattato in modo più o meno diretto la crisi del 2008 (Margin Call, Too Big to Fail e il più recente La grande scommessa), la serie targata Showtime, stando a questo primo episodio, si muove sul più classico degli scontri tra individui che si attraggono e si respingono in modo ossessivo. E sull’eterno e mai sopito conflitto interiore tra ciò che siamo e ciò che vorremmo gli altri vedessero e, soprattutto, ammirassero di noi.

I due personaggi sono dei predestinati, anche se in modo diverso. Chuck ha nel padre il suo mentore. La posizione che occupa era già definita alla nascita, anche se poi è dal consenso popolare che dipendono le sue sorti e dunque deve stare perennemente attento a non fare passi falsi. Axe, invece, è un altro tipo di predestinato. L’11 settembre 2001, al contrario dei suoi soci, non era nell’ufficio in una delle Torri Gemelle. Lui è dunque il sopravvissuto, l’eroe che da quel giorno si è arricchito ma che ha anche aiutato il prossimo con sostanziose donazioni alla città e borse di studio ai figli delle vittime. Fino a quando riuscirà a mantenere questo profilo sarà inattaccabile. Il problema è che Axe come Chuck, oltre al culto della propria immagine, sente l’odore del sangue. Non può resistere al fascino della sfida, al mostrare la sua superiorità nei confronti del contender, anche a costo di perdere tutto, di rinunciare alla «santificazione» che finora lo ha protetto da qualsiasi malefatta.

Nel racconto non vengono risparmiate terminologie tecniche, come spesso accade nella scrittura televisiva statunitense quando si tratta di delineare un mondo, che sia quello della polizia scientifica, di un pronto soccorso o di un tribunale. E non mancano nemmeno quei personaggi che contribuiscono a disegnare l’alta finanza come qualcosa di irriducibilmente altro. Tolti però questi due elementi che, se posti al centro, potrebbero creare una netta separazione tra chi guarda lo spettacolo e lo spettacolo stesso, si impone il confronto tra due uomini che hanno ambizioni e debolezze, che cercano di rivelare e al tempo stesso di nascondere quello che sono, che attribuiscono al fine che perseguono la giustificazione del mezzo che usano. Una volta ancora la narrazione di vicende umane nel quale specchiarci, a rischio di scoprire che non siamo i più belli del reame.