Lasciamo per un momento da parte l’attualità degli ultimi giorni, con la richiesta di testimoniare al processo sulla trattativa Stato-mafia rivolta al presidente Napolitano che porta il film di Sabina Guzzanti quasi di diritto al centro della cronaca. Perché se La trattativa, in sala dopo il passaggio alla Mostra di Venezia rivendica apertamente un legame con la realtà – e la Storia – del nostro paese, dall’altra parte pone anche delle questioni su cosa significa oggi fare un cinema «impegnato» come si diceva un tempo, o di denuncia.
Nei giorni veneziani La trattattiva è stato spesso unito a Belluscone – Una storia siciliana per il tema, ovviamente, e per alcune figure che tornano in entrambi i film. Per esempio quella del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, ex braccio destro del boss Riccobono, testimone chiave nel processo sulla trattativa Stato-mafia, che qui parlando di Borsellino, visto poco prima che venisse ucciso, ricorda lo smarrimento del giudice dopo una riunione con probabili persone dei servizi. Ritornano i nomi del senatore Dell’Utri, dello stalliere di Arcore Mangano, «testa di ponte» tra Sicilia e Lombardia dove negli anni Novanta la mafia si espande e, soprattutto, di Berlusconi.
I due film però sono davvero all’opposto per stile, scelte narrative, riflessioni sul cinema. Sabina Guzzanti rimane nei luoghi della politica, e costruisce la sua narrazione su coloro che hanno manovrato le cose o ne sono stati esecutori. Nella politica cerca le cause e gli effetti, è la politica che deve fare chiarezza, e scegliere dove collocarsi, e i tribunali non possono essere la soluzione, non la sola almeno.
Con questo obiettivo ripercorre vent’anni di Storia italiana, dal maxiprocesso mafioso del 1992 alla guerra contro lo stato della mafia, il tritolo a Capaci, dove muore Falcone con la moglie e la scorta, e prima ancora l’omicidio di Salvo Lima, in piena campagna elettorale, l’uccisione di Borsellino, le bombe in tutta Italia, Milano, Roma. Fino al processo per la trattativa Stato-mafia, al coinvolgimento delle istituzioni, dei politici come l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino o i gli ex capi dei Ros Subrani e Mori, il ruolo dei presidente della Repubblica Napolitano, e prima di Scalfaro. Ma anche di figure come il giudice Caselli, mostrato qui in chiave abbastanza ambigua, come qualcuno che evita responsabilità. I boss, Riina e Provenzano, l’ex sindaco di Palermo Ciancimino. La nascita di Forza Italia, il nuovo partito che dopo la caduta della Prima Repubblica si presenta come l’interlocutore necessario per ottenere le garanzie che premono, a cominciare dall’abrogazione del 41 bis. Pure se oggi un altro boss pentito arriva a dire che uno come Berlusconi forse non lo avrebbero affiliato, troppo poco serio avere un amico che fa il bunga bunga.
Nella ricostruzione mescola archivi, giornalismo tv, la grafica santoriana, riferimenti espliciti al cinema neorealista alla Francesco Rosi, citato con un frammento di Salvatore Giuliano. Riprende il suo vecchio e storico Berlusconi, in coppia sfavillante con Dell’Utri, l’uomo a cui si deve Forza Italia, e collega con precisione documentata ogni frammento di questa Storia. Ciò che tiene insieme tutto però, è il piano narrativo, la scrittura, il romanzesco, che è anche quello con cui formulare ipotesi, colmare i «buchi» e costruire le proprie tesi – vedi l’immagine di Caselli e la sua presunta distrazione.
Ed è qui che Guzzanti mette il suo pensiero, rivolge le sue accuse, elabora la sua trama di connivenze e responsabilità. Del resto la «finzione» è dichiarata da subito, è la stessa Guzzanti a dirci cosa sta facendo insieme a un gruppo di lavoratori dello spettacolo. Lei sa come funziona, come molti altri disturbatori della quiete pubblica, venne bandita dalla televisione dell’era berlusconiana, e però proprio perché comica degli effetti mediatici conosce dosaggi e equilibri sottili. Sa anche come tutto si può digerire, omologare, l’intervista a un pentito o una fiction sulla mafia.
Alla fin troppo semplicistica retorica del complotto oppone perciò l’indagine lineare, quasi ossessiva e fa di noi, il pubblico, il controcampo della politica a cui chiedere la risposta che evita. Il rebus rimane senza soluzione, e anzi lei ci lascia con una domanda: quando è che il nostro paese entrerà in uno stato di grazia? La risposta è appunto ancora tutta da scrivere.