Che cos’è Il cigno di Baudelaire (appena pubblicato da Algra Edizioni nella collana «L’Arco di Ulisse» diretta da Emilio Zucchi, autore anche della prefazione, pp. 80, euro 10), questo piccolo e prezioso libro di Giuseppe Conte, uno dei nostri poeti più grandi, ormai ascrivibile senz’altro al canone dei classici? Come definirlo?
La domanda sarebbe inutile, o addirittura oziosa, se non fosse che è lo stesso Conte a legittimarla, essendo lui stesso a definirlo «una confessione».

Il cigno di Baudelaire, in effetti, si presenterebbe piuttosto come una biografia, o come la descrizione e l’analisi di una poetica: quella di Baudelaire, appunto, e della sua produzione, a cominciare naturalmente dai Fiori del male. Ed è anche questo: chi volesse potrebbe leggerlo anche solo come tale, e vi troverebbe delineati in poche pagine gli elementi essenziali tanto dell’una – di una biografia, di una vita nei suoi elementi nudi e crudi – quanto dell’altra – di una poetica, di un’interpretazione dell’opera.

E non ne rimarrebbe deluso né chi Baudelaire lo conoscesse e lo amasse già, né chi avesse la fortuna o la sfortuna di non averlo ancora mai incontrato, di non esserne ancora mai stato toccato e forse ferito. Conte non ha dubbi, al riguardo, sull’imprescindibilità dell’incontro, se non addirittura sulla sua imprescindibilità in un dato momento dell’esistenza: «Chi non ha letto Baudelaire nell’adolescenza», afferma senza tentennamenti, «è partito svantaggiato per l’avventura della vita».

BAUDELAIRE che era nato in una famiglia appartenente alla borghesia agiata nella Parigi dei primi del 1800; Baudelaire la cui madre, amatissima, dopo la morte del primo marito si era risposata con un uomo che gli provocava un senso perfino di disgusto, oltre che un desiderio di ribellione; Baudelaire attratto e respinto, al contempo, dall’amore e dal sesso, dal desiderio e dalla sua negazione, dalla sua sublimazione, dalla felicità e dalla perdizione, dalla legge e dalla trasgressione; Baudelaire ossessionato per tutta la vita dall’amore per Jeanne Duval, nei cui lineamenti e movimenti, prima ancora che nella sua anima, era quasi miracolosamente condensata questa medesima commistione fra opposti, fra cielo e fango, fra splendore e abiezione – Jeanne, la sua rovina irrinunciabile; poeta maledetto che affronta il Male e vi entra fino alle profondità più abissali (ed è per questo che leggerlo può lasciare una ferita) ma solo per vedervi «la conferma che esiste il Bene, ma come meta suprema e irraggiungibile»; Baudelaire contro la sua epoca, disallineato, solo, esiliato, anche come poeta civile.

C’è tutto questo, nel Cigno di Baudelaire, ma la sua vera essenza è altrove, è proprio in quella «confessione» che Conte dichiara  esplicitamente di voler rendere di sé: perché è di sé che Conte ci parla, attraverso Baudelaire.

E DA QUESTO PUNTO DI VISTA il libro assume allora tutt’altro carattere, quello di una dichiarazione di poetica in sé stessa, di una biografia che supera il profilo dell’autore raccontato e lo assorbe in quella dell’io che racconta, o meglio ancora: di un’autobiografia sentimentale, di un darsi in purezza, senza veli, senza nascondimenti.

Nessuna sovrapposizione, però, nessuna invadenza narcisistica. Semmai un tributo, il riconoscimento di una grandezza, l’individuazione di una traccia lasciata nel proprio destino. Com’è chiaro quando leggiamo ad esempio una pagina come questa: «Ho perso per sempre l’innocenza scegliendo Baudelaire. Eppure so che grazie a lui e alla poesia ho conservato una innocenza anteriore, nascosta, vergognosa di sé. L’infanzia eterna, terrorizzata, orante, incapace di compromesso con la realtà, curiosa di scoprirne sempre nuovi reami, debole e fortissima, sospesa continuamente tra il godimento e la sofferenza, tra un ridere felice e un piangere soffocato».

LO STESSO CIGNO al quale allude il titolo del libro, protagonista di una delle poesie più celebri dei Fiori del male, assurge a simbolo e segno di un destino, in questa ricognizione personalissima e spesso dolorante: emarginato, quel cigno, disconosciuto, ma pur sempre indomito rispetto al senso comune, alle correnti dominanti, esattamente com’è o dovrebbe essere la poesia, la quale a sua volta non dovrebbe votarsi a nient’altro, sottolinea Conte, che all’«Umano», alla «Pietà», alla «Bellezza» – e che nient’altro dovrebbe fare, dove veda minacciate le sue «stelle polari», se non combattere e ribellarsi, sempre con «nuovi gridi e nuovi sogni».