È una bella notizia che il Progetto Fori, che consideravamo consegnato alla memoria storica, sia stato invece riesumato dall’amministrazione Gualtieri, e che esso venga affidato a Walter Tocci, da sempre suo sostenitore insieme ad altri autorevoli personaggi come: Cederna, Benevolo, La Regina, De Lucia, e ai tanti cittadini che avevano perso la speranza che si potesse ancora solo parlarne.

La sciagurata via dell’Impero (l’attuale via dei Fori Imperiali) è una ferita che sanguina ancora nel presente storico della città. La volle Mussolini, nel 1932, e comportò l’abbattimento di chiese storiche e interi palazzi, i cui abitanti furono deportati in luoghi lontani dalla città (la plebaglia lontano dal centro, era la parola d’ordine) in quelle che sono poi diventate le attuali periferie.

La retorica fascista volle appunto una strada dritta “come la spada di un legionario”, adatta alle grandi parate, spianando tutto ciò che c’era tra piazza Venezia e il Colosseo, compresa la collina della Velia, e coprendo con una massicciata stradale i resti dei Fori, venuti nel frattempo allo scoperto, di Traiano, Augusto, Nerva, Cesare, Vespasiano, sui quali sorgeva il vecchio quartiere Alessandrino.

La via dell’Impero spaccò inoltre in due il sistema archeologico rompendo l’unità di quell’immenso patrimonio culturale e di testimonianza storica.
Fu Petroselli a tentare di ripristinare il parco archeologico, intervenendo su varie parti di esso: lo smantellamento di via della Consolazione seguito dall’eliminazione del piazzale fra il Colosseo, l’arco di Costantino e il resto del complesso Foro-Palatino, l’unificazione dello spazio archeologico fra il Colosseo, il Foro Romano e il Campidoglio e il ripristino dell’antica via Sacra.

All’inizio del 1981 cominciava l’esperienza delle domeniche pedonali sulla via dei Fori, proseguita nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stesso clima festoso dell’Estate romana di Renato Nicolini. In quello stesso anno Petroselli moriva appena due anni dalla sua elezione. Per Petroselli il Progetto Fori corrispondeva all’obiettivo di avvicinare il centro con la periferie realizzando una grande piazza pubblica per tutti i romani: un progetto politico oltre che archeologico e culturale

Tutti i Sindaci, dopo di lui, hanno continuato a parlare del Progetto Fori, senza mai darne seguito; nei fatti, non mettendo più in discussione l’eliminazione di via dei Fori Imperiali. Walter Tocci è fra quei pochi a pensare un futuro di Roma non omologato a quello di altre città del mondo, dove l’archeologia ha il solo compito di attrarre turisti.

Ma cos’è il Progetto Fori per la città di Roma?
Non si tratta solo di portare alla luce vecchie archeologie del passato secondo una consumata retorica monumentalista e neppure soltanto di ripristinare l’unità dell’area archeologica, tantomeno di soddisfare l’ingordigia dei turisti.
Si tratta, con la sua realizzazione, di costruire una città moderna, unica al mondo. Perché “moderno” è l’aggettivo adatto a questo progetto: una grande e accogliente piazza pubblica, come non ce ne sono altre, a disposizione non solo dei romani del centro ma aperta alle periferie. Un progetto educante su come la storia passata vive ancora nel presente.

La speranza che quell’ideale di bellezza antica possa ispirare le generazioni presenti e future: contro la claustrofilia indotta dalla pandemia, contro le guerre presenti e future, contro la bruttezza dell’età moderna, contro le disuguaglianze urbane sempre crescenti. Un simbolo potente di rinascita culturale, un simbolo anche di riscossa civile contro la stagnazione in cui versa da anni la città.

Un progetto che affermerebbe la bellezza civica e, dunque, anche la speranza di rinascita per la città sventurata; non un compito facile; d’altra parte quella inutile autostrada nel cuore della Capitale, nemmeno più transitata dalle auto, resta solo uno sfregio per i luoghi che attraversa e separa.

La perdita della memoria collettiva è infatti l’altra costante della nostra epoca, insieme alla sua manipolazione. Perdere la memoria collettiva significa perdere insieme identità e comunità. Potrebbe sembrare un segno di liberazione ma è invece un segno di nuova disumanità (Laura Marchetti), perché dove non si ricorda insieme, non si ripara insieme, dove trionfa l’oblio, non ci può essere resurrezione (Ricoeur). Ma soprattutto, dove non c’è memoria collettiva, non c’è bellezza civile e neppure democrazia; parola questa indissolubilmente legata alla bellezza come modo di intendersi e di convivere.