La tempesta dell’altra notte, lampi spettacolari e raffiche di vento, non l’avrebbero ottenuta i migliori effetti speciali, Christopher Lee, sulla Piazza Grande per l’Excellence Award si sarà molto divertito … Piove inesorabilmente sulla Piazza Grande, e il «colore» giornalistico c’entra poco, l’appuntamento all’aperto è infatti uno dei momenti clou del Festival di Locarno, la «prova» col pubblico trasversale e non solo cinefilo, quest’ultimo inoltre da questa edizione avrà l’alternativa di ricerca del Fuori concorso in parallelo al megaschermo sotto le stelle.

Capire che festival è il festival di Locarno diretto da Carlo Chatrian è ancora presto, di certo possiamo dire che ha saputo concentrare su di sè un’attenzione da «grande evento» almeno scorrendo l’incredibile rassegna stampa in bella mostra nelle bacheche della Sopracenerina, la sede del Festival. Capita anche di ritrovare facce che negli anni passati si erano perse di vista, insieme ai soliti amici, un po’ come nel programma che alle tendenze più attuali mescola passioni «antiche» magari un piccolo lavoro di Jean Marie Straub come Un conte de Michael de Montaigne (nel Fuori concorso), o l’attualità del Focus Siria.

Per certi aspetti c’è una certa continuità con la formula collaudata negli anni di Olivier Pere, dirette tv, il direttore che introduce i film rimandato dai molti schermi sparpagliati nei punti festivalieri. Di nuovo c’è che sono aumentati i film, «bulimia» caratteristica di una certa cultura festivaliera, che irregimenta le visioni a marce forzate (poi è ovvio che si può e si deve scegliere e però ti viene l’ansia oddio ho perso qualcosa di irrinunciabile) che non sempre fa bene…

L’evento del giorno è A Spell to Ward off the Darkness (Fuori concorso), l’attesissimo film a quattro mani di Rivers è inglese (lo scorso anno è stato protagonista di una personale al Milano Film Festival organizzata insieme a Filmmaker Film Festival), Russell americano, entrambi sono cineasti-viaggiatori alla ricerca delle loro storie, e delle loro immagini in luoghi spesso remoti. Partono soli, o quasi, girano in pellicola che è una scelta estetica ma soprattutto di resistenza.[do action=”citazione”]Ben Rivers e Ben Russell, tra i protagonisti del cinema di ricerca internazionale, divenuti negli ultimi anni un riferimento teorico per quelle nuove generazioni di cineasti che lavorano sul confine tra cinema, arte, antropologia visuale.[/do]

La materia diviene essa stessa un elemento del loro immaginario, tempo, sostanza, fisicità, apocalisse, pensiero. Possono essere le pareti di una vecchia fabbrica inglese in dismissione (Slow Action di Rivers) o la vita di un eremita – Two Years at Sea ancora di Rivers – narrata attraverso le stagioni, in cui si riflette una condizione sociale; nessuna nostalgia per una impossibile wilderness, piuttosto l’affermazione pacata di un vivere «fuori», in quella natura che da qualche altra parte è già rifiuto, e luogo globale della contemporaneità. Russell, che all’ultimo Fid Marseille, il Festival internazionale del documentario di Marsiglia, ha presentato il suo magnifico cortometraggio Let us persevere in what we have resolved before we forget nella ricerca sulla materia, e nel gesto del filmare, fa irrompere una storia che è quella della rappresentazione, dell’ «altro» , memoria del colonialismo, della schiavitù, dell’esotismo, scavando nella sostanza stratificata dell’immaginario (tra i suoi riferimenti teorici c’è Jean Rouch).

A Spell to Ward off the Darkness, dunque, che era in partenza una scommessa difficile: come infatti unire due personalità così forti, oltre al piacere e al desiderio di fare qualcosa insieme? E il film, realizzato nel corso di tre anni, rimane un po’ sospeso, e incerto in questa relazione, come se i due filmaker non fossero riusciti a trovare quel punto d’incontro necessario, rimanendo invece ciascuno dalla sua parte, col segno forte di un’evidenza personale che fatica a fondersi reciprocamente.
«La nostra idea era di esprimere un diverso approccio ai media contemporanei limiti dell’arte, del cinema e dell’arte come cinema.

Per questo abbiamo deciso di mescolare finzione e documentario, investigazione ideologica e contemplazione» scrivono Rivers e Russell nelle note di regia. Quale è dunque «l’incantesimo» con cui resistere alle tenebre? Il film segue tre movimenti, il primo ci porta in una comune di persone che vivono nella natura, fuori dal mondo, in una strana utopia mistica e insieme concreta. I cineasti ne seguono la quotidianeità di un’estate, i piccoli gesti di ogni giorno, cucinare, stare coi figli, condividere col compagno o con la compagna gli istanti dell’esistenta. Le conversazioni, le confidenze un po’ sbronze, i pensieri sul mondo, i momenti di solitudine, cosa significa la dimensione comunitaria in termini di responsabilità personali … Un fluttuare gentile, sospeso, semplice dove esplodono epifanie improvvise: una nube che scivola nella luce fino alla porta di casa risucchiando la ragazza seduta sullo scalino …

Nel secondo movimento il protagonista è un uomo, lo avevamo visto già prima, dalla dimensione comunitaria passiamo a quella singolare, la solitudine meditativa nella natura. L’uomo passeggia, legge, pesca , una dimensione che torna spesso nei film di Rivers. Il terzo movimento è un concerto, l’uomo è sul palco, la voce roca, che graffia, è il musicista e performer Robert AA Lowe (conosciuto anche come Lichens), che è appunto il protagonista del film, e il corpo narrativo in cui si concentra il passaggio tra finzione e documentario, la ricerca sonora, e fisica, quel filmare la sostanza della natura, muschi, funghi (quasi lisergici), erbe.

E rumori, respiro, silenzio, un movimento come la panoramica iniziale in cui l’immagine viene messa costantemente alla prova. Fino a quell’ultima sequenza in cui il pubblico del concerto si specchia con quello in sala, provocando quel cortocircuito di esperienza in cui confluiscono anche le loro reciprocità. In cui si interroga il gesto stesso del filmare, il corpo a corpo della pellicola resa evidente dai «graffi» ma poi proiettata in digitale – Russell ha girato il suo lungometraggio Let Each One Go Where He May in 16 millimetri e con tredici caricatori seguendo la camminata di due fratelli, in Suriname, lungo la strada percorsa dagli antenati in fuga dalla schiavitù.

E anche questo viaggio contro le tenebre traccia una cartografia in movimento (sul rapporto cinema e camminare è appena uscito un bel libro, di Karen O’Rourke, Walking and Mapping), tra possibili e attuali significati dell’utopia (tema ricorrente in Rivers) e visceralità performativa (corpo, gola, occhi, pelle) che è il segno di Russell. Una resistenza che è la forza vitale del fare-cinema.