«L’esotismo non è quello che la parola ha già tante volte prostituito. L’esotismo è tutto ciò che è Altro. Godere di esso è imparare ad assaporare il Diverso». Basterebbe quest’asserzione lapidaria, tratta da uno dei libri più godibili di Victor Segalen, Equipée: da Pechino al Tibet, venerato da Bruce Chatwin, Fosco Maraini e Tiziano Terzani, a sbaragliare una serie di equivoci legati al concetto di esotismo. Tale termine viene spesso associato, in ambito francofono, a figure del calibro di Claudel e Loti, con aspetti, se non denigratori, perlomeno fondati su una concezione anacronistica del fenomeno, correlata a motivi decorativi o meramente folcloristici. Ma, più che con tali autori, che pur hanno avuto un ruolo fondamentale nell’apprentissage di Segalen, le corrispondenze andrebbero ricercate con l’opera più tarda di irregolari come Michaux o Daumal che tentò di coniugare Les pouvoirs de la parole con le dottrine ereditate dai testi sacri indù, accanendosi intorno allo studio del sanscrito.
Segalen fu una singolare figura di medico della Marina che disprezzava il mare, viaggiatore, etnografo e archeologo, amico di Debussy, Claudel, Saint-John Perse e del bovarista Jules de Gaultier, esegeta di Rimbaud e Gauguin di cui, su suggerimento di Huysmans, seguì le tracce a Tahiti a distanza di qualche mese dalla morte, riuscendo nell’impresa di acquistare alcuni suoi taccuini e dipinti a un’asta. L’esperienza tahitiana si riverserà nelle pagine del romanzo Les Immémoriaux, pubblicato nel 1907 con lo pseudonimo di Max Anély (traduzione apparsa da Meltemi nel 2000 con il titolo, alquanto didascalico, di Le isole dei senza memoria), in cui denuncia le aberrazioni del colonialismo in Polinesia, e nel resoconto dell’incontro mancato con il pittore post-impressionista, fruibile in Gauguin nel suo ultimo scenario e altri testi da Tahiti (Bollati Boringhieri, 1990). Fu sua, tra l’altro, l’introduzione al Noa Noa.
Ma è soprattutto sul versante cinese che va ricercata la fase più autentica dell’opera di Segalen, alla stregua della Wunderkammer appartenutagli, comprendente porcellane Ming e statuette in terracotta Tang: da quel singolare diario romanzato che è René Leys, uscito postumo nel 1922, a tre anni dalla scomparsa dell’autore, suscitante l’ammirazione di Claudel e Rilke, si passa alle Lettres de Chine. La temperie sinica è quanto mai presente anche nelle poesie: dalla raccolta Stèles, pubblicata nel 1912 a Pechino in pochi esemplari fuori commercio (tradotta da Guanda nel 1987), basata sulle iscrizioni funerarie composte attraverso gli ideogrammi, ai versi di ispirazione taoista di Peintures (’16), a Odes, edito postumo nel ’26. Quest’ultima raccolta compone ora, insieme a Thibet, Preghiera orientale (pp. 208, € 23,00) che il Saggiatore licenzia, a cura e con traduzione – piuttosto letterale – di Federico Pietrobelli. Odi, ideato come il tentativo di innovare la prosodia attraverso la metrica cinese, è un prosimetro che presenta la particolarità di accogliere il commento di ogni brano proposto, come avverte lo stesso autore: «La parola Odi è classicamente cinese. La forma sarà una poesia corta, concepita su un ritmo cinese: 5+7 che si accomuna dopotutto per lunghezza di respiro al nostro Alessandrino. Ma ecco il tentativo: non credo si possa tradurre veramente una poesia cinese senza circondarla di ciò che la circonda in Cina, il suo commento».
I modelli dichiarati sono lo Schijing, il Chu ci, le Elegie di Chu e il Classico dei Versi di Confucio (si pensi al recupero che fece Pound di alcuni testi del pensatore cinese). Si tratta di una poesia dai toni freddi e misurati, dove non mancano esiti felici, sottesi tuttavia al proposito «che alcuna delle mie parole / raggiungerà mai la nona delle Cupole / né lo spazio basso ove i gravi geni s’involano».
Thibet, emblematicamente dedicato a Nietzsche, è una sorta di poema suddiviso in cinquantotto canti o sequenze dove si rende omaggio, come avverte il curatore, «a un paese sfiorato per due volte con lo sguardo e percorso in pensiero attraverso narrazioni altrui», a partire dai Detti e fatti di Padmasambhava di Toussaint. L’andamento è più mosso e articolato rispetto a quello delle Odi, con accenti di stampo baudelairiano: «Un tempo abitai cattedrali, / Pregando di piacere o pianto, indossando la volta a botte, / Vetraio delle luci abissali, / Mi facevo la gran dimora ricoprente la folla in fervore / Ero Nostra Signora dei Brusii». L’innegabile retaggio rimbaudiano, confluito nel cammeo dedicatogli nel Double Rimbaud (1906), si manifesta lungo le coordinate di una visionarietà che stride con le griglie metriche adoperate. E proprio in tale dicotomia bisogna ravvisare il fascino esercitato da una poetica che, a tratti, fa pensare all’afflato metafisico riscontrabile nel Monte analogo di Daumal: «a tua immagine, Tibet; sul piano dei tuoi castelli soprannaturali / Lasciami edificare e ornare la cameretta che ogni uomo in sé edifica».
Nella postfazione Giorgio Agamben precisa: «Per quanto appartenga incontestabilmente al territorio della letteratura, l’opera di Segalen tuttavia lo trasgredisce continuamente per far segno non tanto verso il mito, quanto verso quel Milieu, quella dimensione centrale in cui potrebbe finalmente essere abolita la differenza tra mito e letteratura, tra langue e parole». Concetto, questo, avallato dalla stessa fine dell’autore, trovato morto, in circostanze mai chiarite, nel bosco bretone di Huelgoat, con una copia di Amleto in mano.