Il potere, data la sua elevata importanza sociale, è oggetto da tempo di riflessioni approfondite. Probabilmente, però, non è stata sinora sufficientemente esplorata la relazione esistente tra il potere e il sistema dei media. Negli ultimi anni, ben pochi hanno cercato di fare evolvere, per esempio, le analisi dello storico canadese Harold Adams Innis, che ha chiaramente messo in luce negli anni Cinquanta come la stabilità delle civiltà dipenda dalla capacità di queste di mantenere il controllo sulle tecnologie del tempo, che garantiscono la continuità, e su quelle dello spazio, che consentono di occupare il territorio.

IL CRESCENTE IMPORSI a livello mondiale di un sistema di potere basato sul digitale ci costringe però oggi a interrogarci in profondità sulla natura di tale sistema, cercando, per quanto possibile, di comprenderne l’ideologia sottostante. È il tentativo che cercano di fare due libri usciti di recente. Il primo, Manuale di disobbedienza digitale (Castelvecchi, pp. 238, euro 17,50), è stato scritto dal giornalista e consulente Nicola Zamperini e s’interroga sulle numerose conseguenze prodotte nella società dall’avvento del digitale. In particolare, si concentra su quel processo di alienazione che porta attualmente gli individui a cedere in maniera crescente a quelle che Zamperini chiama «techno-corporation» dei pezzi della loro sovranità personale. In cambio dunque di modesti benefici, le persone rinunciano alla possibilità di controllare e gestire la loro memoria o i loro sentimenti di amore e di amicizia. Piuttosto interessante la parte del libro in cui Zamperini individua in un evento come Burning Man, l’infrastruttura culturale che sta alla base dello sviluppo delle principali aziende della Silicon Valley. Questo originale festival di arti, performance e invenzioni tecnologiche che dal 1986 si tiene ogni anno alla fine di agosto nel deserto del Nevada rappresenta infatti da tempo un evento imperdibile per tutti i designer, programmatori, informatici che lavorano nelle aziende californiane del mondo digitale. È in grado di dare vita a una forma di socialità che ricorda la libertà delle comunità hippy del passato, ma praticata attraverso station wagon, roulotte e camper anche lussuose e il pagamento di un biglietto di 380 dollari.

SECONDO ZAMPERINI, nel festival Burning Man i partecipanti hanno imparato e condiviso dei comportamenti che sono in seguito diventati tipici della Rete. Vi predomina ad esempio la legge del baratto e tale legge assomiglia alla presunta gratuità dei servizi offerti nel web. Allo stesso tempo, Burning Man è all’insegna della temporaneità. È una comunità che nasce dal nulla e dura pochi giorni. In essa, cioè, vige l’impermanenza, proprio quella che è sistematicamente presente nel web. E vige anche la collaborazione, qualcosa di simile a quella forma di «produzione collaborativa» verso cui le aziende attraverso il web stanno sempre più spingendo le persone. A Burning Man bisogna inoltre imparare a esibirsi e a catturare l’attenzione degli altri verso le proprie creazioni, come è necessario fare nel web. Bisogna cioè sentirsi parte di una cultura primitiva e selvaggia dove conta solamente la capacità di fornire una performance. Non è un caso perciò che le aziende digitali californiane siano per lo più pensate da maschi e realizzate da maschi.

Ma Burning Man è soprattutto una celebrazione della tecnologia e della fiducia nel progresso e nelle capacità creative e innovative di cui l’individuo dispone. Una celebrazione che è in grado di trasformare le ore lavorative delle persone delle tecno-corporation ma anche quelle offerte gratuitamente dagli utenti del web in una forma di partecipazione quasi mistica. Anche perché il risultato finale che viene promesso è potente: migliorare la qualità della vita di tutti, cioè cambiare il mondo.

COME BURNING MAN, insomma, l’economia digitale di oggi apparentemente è qualcosa di spettacolare e divertente, ma, come scrive Zamperini, «nella sostanza il capitalismo digitale è spietato come quello dell’Ottocento e del Novecento, e probabilmente non esistono altri modi di essere del capitalismo stesso». Che dietro la sua facciata «hippy» oggi nasconde un’azione di sistematico sfruttamento del lavoro dei dipendenti e dei consumatori.
Un secondo volume uscito di recente e scritto da Régis Debray ci consente di allargare ulteriormente la prospettiva attraverso la quale si può interpretare l’ideologia dell’economia digitale. L’autore ha sostenuto infatti, nel volume da poco tradotto in Italia dall’editore Franco Angeli con il titolo Il nuovo potere. Macron, il neo-protestantesimo e la mediologia (pp. 92, euro 13,00), che è in corso un radicale processo di cambiamento in grado d’imporre un modello etico e culturale di tipo «neo-protestante». Debray è certamente un personaggio discusso. Diventato famoso negli anni Sessanta e Settanta come teorico della rivoluzione, ha partecipato al fallito tentativo di rivoluzione in Bolivia di Ernesto Che Guevara e, dopo alcuni anni di carcere, si è trasferito in Cile durante l’epoca della presidenza di Salvador Allende. Tornato in Francia, ha ricevuto incarichi politici di alto livello dal presidente François Mitterand.

NE IL NUOVO POTERE la sua intenzione è di dimostrare come quel modello di società rigorosa ed efficiente che è stato sviluppato dai paesi del Nord Europa si stia progressivamente diffondendo nell’intera cultura occidentale, Italia compresa. Si tratta di un modello che proviene direttamente dall’etica protestante, dove la responsabilità della salvezza dell’anima è attribuita al fedele. Questi deve infatti farsi carico dell’interpretazione del testo biblico e dell’applicazione dei suoi precetti. Passato negli Stati Uniti, questo modello si è trasformato nell’individualismo del do it yourself ed è la base di quella che qualche anno fa è stata chiamata l’«ideologia californiana», cioè quel modello culturale neo-protestante che ha portato al successo le potenti techno-corporation del mondo digitale contemporaneo e che ora fa ritorno in Europa dopo essere stato rivitalizzato e rinnovato.

È QUESTO per Debray il «nuovo potere», che si va imponendo ovunque in Occidente, ma che sta entrando in modo molto evidente in un paese storicamente a prevalenza cattolica come la Francia. Perché qui il filosofo protestante Paul Ricoeur ha direttamente influenzato il presidente della Repubblica Emmanuel Macron, che in passato è stato suo assistente.
Il diffondersi del «nuovo potere» può erodere la concezione della privacy esistente in Europa, che tradizionalmente era molto diversa rispetto a quella dominante negli Stati Uniti. Debray non a caso cita Eric Schmidt, Ceo di Google, secondo il quale «solo le persone che hanno qualcosa da rimproverarsi si preoccupano dei loro dati personali». Perché, secondo questa visione, un buon protestante non ha nulla da nascondere agli altri. In realtà, questo è un alibi, perché le techno-corporation, dietro un’immagine apparente di trasparenza, fanno conoscere ai loro utenti solamente ciò che corrisponde alla loro visione delle cose. Si arrogano il diritto di decidere per l’intera società quello che dev’essere escluso e quello che invece il loro puritanesimo politically correct può ammettere. Mentre i loro utenti hanno l’obbligo morale di non nascondere nulla.