Quarant’anni fa la sentenza n. 202 della corte costituzionale liberalizzava l’etere e permetteva la nascita legale dell’emittenza locale. La prima a partire «radio Parma». Già due anni prima la stessa corte aveva emesso un’altra sentenza, sul cavo, anticipatrice della piccola rivoluzione che avrebbe segnato per sempre il sistema comunicativo italiano.

Purtroppo, le parole della consulta, che limitavano all’«ambito locale» le trasmissioni, non diedero luogo ad una riforma moderna, bensì alle storpiature dei decreti varati nel 1984 da Craxi per salvare Berlusconi. Fino a Mammì e a Gasparri.

Insomma, radio e televisioni locali furono sedotte e abbandonare, repentinamente. Un provvedimento organico che disegnasse senza logiche emergenziali o piccole mance non fu mai varato, salvo scampoli contenuti in provvedimenti sui broadcaster nazionali. E sempre poca radio. Nell’eterna rincorsa ai desiderata di Fininvest-Mediaset e al mantenimento dello status quo della Rai, terzi poli e stazioni locali sono stati compressi o emarginati dagli equilibri che contano. Qualche lampo, da «La7», a Discovery (con gli annunciati Crozza, Saviano e Volo), a un nuovo polo (si dice) attorno a «Telenorba».

Come dice Fanny Ardant , la signora dalla porta accanto, ogni storia ha un inizio, un centro e una fine. Ecco, la vicenda gloriosa delle emittenti potrebbe essere alla conclusione di una lunga parabola discendente. È la denuncia svolta dal coordinatore Marco Rossignoli delle associazioni storiche Aeranti-Corallo riunite nel tradizionale convegno annuale.

Sulla stessa lunghezza d’onda Luigi Bardelli. Felice Blasi presidente dei comitati regionali per le comunicazioni e Daniela Scano della federazione della stampa. Se non vi sarà già nelle prossime giornate un’inversione di rotta da parte del governo, rappresentato dal sottosegretario con delega Giacomelli. Che si è soffermato su qualche maggiore certezza di risorse, vista la scelta di dedicare una parte del canone rai –ora da pagarsi con le bollette della luce- alle imprese locali.

Tra l’altro, si è appreso che 600mila cittadini hanno dichiarato di non possedere il televisore. E non è poco.

Tuttavia, gli argomenti che scottano toccano le frequenze, la cui penuria potrebbe essere esiziale se non si trova un’alternativa all’ormai prossimo abbandono della banda 700, devoluta per scelte europee alle potenti telecom. E poi l’annosa questione delle interferenze con i paesi confinanti, soprattutto nell’Adriatico, per non dire delle eterne magagne italiane che hanno portato a rischiare l’espulsione dal consesso internazionale. Cartellino rosso, che Giacomelli ha sottolineato di avere evitato. Una donna –Eva Spina- ricopre ora la carica di vicepresidente dell’Uit, l’organizzazione specifica della famiglia dell’Onu. Chissà, in questo momento storico solo le donne ci possono salvare.

È stata avanzata una precisa, condivisibile, richiesta: alzare al rango di norma primaria la delibera 366/2010 dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sulla numerazione dei canali. Vale a dire la «democratizzazione» dei tasti del telecomando, programmati adesso dando un privilegio ai gruppi maggiori, e imponendo così ai potenziali utenti delle stazioni «altre» una faticosa navigazione nella quantità artificiosa dello spettro digitale.

Infine, un suggerimento: perché non prevedere una quota obbligatoria di diffusione di produzioni locali per le televisioni nazionali? La sede legislativa c’è: la discussione sulla riforma del cinema e dell’audiovisivo, al senato.