Il contrasto tra la mondanità della quotidiana tazza di caffè e la tragedia del suo processo produttivo, ovvero la distanza che separa chi lo lavora da chi lo beve, è una delle chiavi di lettura per Coffeeland Storia di un impero che domina il mondo di Augustine Sedgewick (traduzione di Daria Cavallini, Einaudi, pp. 475, € 35,00). Frutto di una ricerca decennale, basato su un’imponente mole di dati socio-economici e su una minuziosa conoscenza delle tecniche agronomiche, questo saggio voluminoso traccia una genealogia della diffusione della «droga» più consumata al mondo tramite l’avventurosa epopea di James Hill, fondatore di un impero basato sulla coltivazione del caffè. Muovendo dall’iniziale produzione della bevanda nel XVI secolo in Etiopia e nello Yemen e dalla sua commercializzazione nel mondo arabo prima e in Europa poi, Sedgewick ci porta attraverso lo sviluppo delle piantagioni sudamericane nel corso del Sette e Ottocento fino all’odierna onnipresenza del caffè nelle cucine, negli scaffali dei supermercati e nelle caffetterie di ogni città del pianeta.

In questo ingranaggio politico-economico si annida la storia dell’antieroe del libro, Hill, che nel 1889 parte dalla Manchester operaia e degradata degli opifici di cotone e arriva, in cerca di fortuna, nel Salvador, giovane repubblica indipendente a sua volta alla ricerca di uno sviluppo economico che la emancipi da secoli di arretratezza. Proprio alla categoria della «arretratezza» l’autore muove le sue critiche, condivisibili anche dal punto di vista storiografico, in quanto grimaldello ideologico per la classe dirigente liberale salvadoregna (e di tutta l’America latina) per legittimare una colossale operazione di spossessamento delle proprietà collettive. Il governo del Salvador procedette, infatti, prima incentivando poi obbligando a sottrarre le terre comuni agli indios, coltivate principalmente a mais da tempi immemori per fini di sussistenza comunitaria, per privatizzarle e garantire, così recita la vulgata liberale, ricchezza e progresso. Ricchezza e progresso che effettivamente arrivarono puntuali, ma per pochi.

Privatizzazione delle terre
La sostanziale eguaglianza, seppure in un’economia di sussistenza, che caratterizzava le società amerinde fin da prima dell’arrivo dei conquistadores, fu stravolta dall’inserimento dalla monocoltura intensiva del caffè che prese il sopravvento sulle terre comuni coltivate e sui terreni boscosi, importante fonte di selvaggina, frutta, legname e medicinali. La privatizzazione della terra, la militarizzazione del commercio e il rigido controllo del lavoro e della vita sociale presero il nome di «riforme liberali». Così come era avvenuto nell’Europa del Settecento, quando le scelte di carattere liberistico avevano privatizzato i cosiddetti beni comuni e ridotto a funzioni marginali i diritti tradizionali di usi civici, privando intere comunità di proprietà collettive e cancellando ogni traccia di «altri modi di possedere», a più di un secolo di distanza nel mondo latino americano da poco liberatosi dal giogo coloniale, lo stesso fenomeno di saccheggio fu mascherato come processo di modernizzazione.

Le piantagioni producevano caffè e fame in quantità corrispondenti: «la privatizzazione delle terre – scrive Sedgewick – fa partire l’orologio della fame che continua a ticchettare in ogni giorno lavorativo». Così come indicato dalle tormentate riflessioni del giovane Marx sulle delibere della Dieta renana riguardanti i furti di legna, la privatizzazione della terra e delle risorse naturali spinse masse di spossessati a rubare ciò che prima era loro: il diritto consuetudinario dei poveri contro il diritto legale dei ricchi. Ma la polarizzazione della ricchezza creò anche i suoi contrappunti di resistenza, che si affermarono negli spazi comunitari dentro e fuori l’azienda agricola, ormai divenuta fabbrica, e che sarebbero confluiti, dopo la Grande depressione del 1929, nelle organizzazioni del movimento operaio sviluppatesi in America latina.

Ciò che ha scritto il più grande storico dell’industria britannica, Eric J. Hobsbawn, sui distretti industriali inglesi può venire proiettato oltremare: «la città era un vulcano e i ricchi e i potenti ascoltavano con timore il suo rumore assordante, temendone le eruzioni». Il primo tentativo rivoluzionario degli indios salvadoregni guidati dal partito comunista nel 1932 subì una repressione genocida.

Il commercio del caffè, creazione dell’impero e della schiavitù ma affermatosi grazie alle regole del libero mercato, vale – insieme a quello del cotone e dello zucchero che hanno seguito gli stessi sentieri – come chiave di lettura imprescindibile per comprendere la modernizzazione dell’Occidente: a partire dalla metà del Settecento una duplice accumulazione primitiva venne basata da un lato sulla separazione dei lavoratori dalla terra attraverso le enclosure (recinzioni) e dall’altro sull’utilizzo dei super-profitti provenienti dal traffico di caffè e cotone e dallo sfruttamento della schiavitù, che contribuirono a finanziare l’espansione dell’industria e del credito.

Tra Manchester e San Salvador – punto di partenza e di approdo di Hill – il legame è tra quella che Marx chiamava schiavitù salariata e la schiavitù reale, o in altri termini, tra forme rispettabili e forme selvagge di sfruttamento. Hill stesso, adattando le tecniche della rivoluzione industriale inglese all’economia di piantagione del caffè in America centrale, incarna con la sua biografia il legame tra le due sponde dell’Atlantico: Manchester, non a caso denominata nell’Ottocento Cottonopolis, e Santa Ana, fertile terreno vulcanico del Salvador, dove fonderà la sua azienda, Las Tres Puertas. Azienda che, grazie all’accesso al credito, divenne nel lasso di tempo di due generazioni, un vero e proprio stato nello stato, il vertice di un impero con diciotto piantagioni e cinquemila lavoratori, retribuiti con miseri salari, fagioli e focacce di mais.

Tra i mozos e le limpiadores
Attraverso il controllo biopolitico dei corpi dei braccianti (i mozos, indios privati della terra) e delle lavoratrici (assunte come limpiadores e considerate più adatte alla delicata e logorante mansione di selezione dei grani migliori), così come di quello dei minori (utilizzati come manodopera di riserva), Coffeeland accompagna il lettore nel cuore di tenebra della modernità, dimostrando in maniera persuasiva e avvincente come il caffè abbia condizionato l’affermazione dell’economia capitalistica, contribuito a tratteggiare la fisionomia del mondo moderno e svolto un ruolo centrale nell’ascesa di un sistema globale interconnesso. Il caffè del resto rappresenta, più di ogni altro bene, una commodity che fa dell’interconnessione la sua ragion d’essere, riuscendo a collegare luoghi e persone tramite il suo uso quotidiano.