Ci si è a lungo assuefatti a vedere in quella sottile febbre di rinnovamento che attraversò le arti negli anni novanta dell’Ottocento la convalescenza della cultura europea dall’epidemia decadente. A vederli di lontano, questi movimenti, si chiamassero Liberty, Art nouveau, Secession o Jugendstil, sembravano germinazioni di un medesimo stelo. Saranno stati i soggetti, egualmente compartiti fra wagnerismo, ellenismo e demonismo alla Richepin, sarà stata l’esacerbata eleganza di quei motivi, stilizzati a comporre un’ineffabile araldica di sogno, fatto è che l’impressione che se ne ebbe per molti decenni fu quella di una invincibile monotonia. Era il gusto che mutava, gli alisei soffiavano e la navicella dell’arte, ormai lontana, non poteva più distinguere nell’esuberante isolotto del Liberty che un eburneo Fujiyama, svettante e semplificato, avvolto in tortuosi sbuffi d’oro. Tutta la disordinata vegetazione del monte sembrava scomparsa, gli strani cacatua che ne popolavano i recessi non cantavano più, le fonti tacevano, le spiagge, gli antri così di lontano parevano non esser mai esistiti. Di quanti buoni artisti ci eravamo quasi scordati? Plinio Nomellini, Camillo Innocenti, Luigi Bonazza, Francesco Nonni, Umberto Brunelleschi. La mostra Il Liberty in Italia, presentata l’anno scorso a Palazzo Magnani a Reggio Emilia, cercò di dare voce a questa varietà, affinché lo stile moderno non si appiattisse su di un ridotto numero di nomi e stilemi. Le conclusioni che se ne potevano ricavare avevano una qualche similitudine con quelle che Gulliver trasse sulla carnagione delle signore inglesi allorché venne schiacciato contro il petto della gigantessa di Brobdingnag cioè che questa «ci appare così liscia perché esse hanno le nostre stesse dimensioni e i loro difetti non si possono vedere se non con una lente di ingrandimento, la quale ci rivela all’esperienza che le pelli più lisce e candide sono ruvide e scabre»: allo stesso modo il Liberty, visto da vicino, si rivela un groviglio nervoso e vitale.
Ori velati e rossi rugginosi
Oggi la mostra Secessioni europee. Monaco-Vienna-Praga-Roma al Palazzo Roverella di Rovigo, che di quella coinvolge alcuni dei curatori (è firmata da Francesco Parisi), vuole disegnare la planimetria delle Secessioni, sempre lasciando prevalere i caratteri distintivi su quelli comuni. Mappature nuove dell’universo modernista, tracciate utilizzando opere meno ovvie come la Maria di Carl Strathmann, insolita fantasia crepuscolare di ori velati e rossi rugginosi, o il Parsifal di Leo Putz le cui fanciulle hanno le medesime carni di granato lucente che immaginò Brangwyn o ancora quel Castello del Mistero di Cipriano Efisio Oppo, che, per la strana mescolanza di sezessionstil nella parte inferiore e divisionismo in quella superiore, fa venire in mente gli ircocervi, i centauri e altro genere d’azzardate chimere.
Le classificazioni, si sa, richiedono tuttavia un largo numero di campionature, e ad analizzare il carattere, o ancor più i caratteri, della Secessione di Monaco sul vaglio di appena venticinque opere si corrono inevitabili rischi, vieppiù se si decide, come si è fatto, di far parlare direttamente gli oggetti senza il buon ufficio che di pochi pannelli a fare da mediatori in queste serrate sticomitie visive. È inevitabile allora che i chiaroscuri e i contrasti appaiano piuttosto insistiti, che gli artisti monacensi, nelle cui tele si riaccendono le luminarie, ebbre di danza e di festa, del paganesimo antico, appaiano tanto distanti dai viennesi e dai loro intarsi, lievi e struggenti, di oro e di linee, e questi dai cechi, visionari intrisi di mistica luce. Di un movimento, sia esso artistico, filosofico o politico, si può sempre scegliere se sottolineare le fratture o le continuità con altri a lui prossimi: quando dalla quarta sala, dove sono raccolti i lucidi archi di faggio di Josef Hoffmann, la Sitzmaschine (macchina per sedersi), sedie e poltrone, chiare maiuscole dell’alfabeto razionalista, si passa alla quinta per stupirsi di un quadro La sala della vita di František Bílek nel quale il blu notte dei tendaggi si sbriciola in incerte caligini di grigio e di azzurro, non si hanno dubbi sulla via scelta dal curatore.
Il Satana miltoniano
In fondo, però, questo piglio non dispiace: fra tante mostre che si vedono nelle quali è difficile comprendere dove tenda, alle somme, il discorso, questa ha il vantaggio di un parlare brusco ma schietto. Tanto più che le opere scelte ad esemplificarlo sono di una efficacia indubbia. Il Lucifero, ad esempio, esposto assieme ai bozzetti preparatori, è il capolavoro (e non ne dipinse in fondo molti) di Von Stuck, superiore anche al Peccato, di lui più celebre e a lui inferiore per la ridondante prosopopea erotica. È anzi la più bella rappresentazione del Satana miltoniano che io ricordi in quel torno d’anni, assieme al Demone seduto di Vrubel’. Della Secessione viennese sono esposti eccellenti disegni di Klimt e un bellissimo Schiele, i quali, se considerati accanto agli arredi di Hoffmann, verificano la validità di un assioma antico: che nei generi considerati minori l’artista può sovente meglio innovare perché più libero dall’ipoteca della tradizione. Ciò è vero per lo sviluppo delle arti decorative come per la nascita del romanzo.
L’Italia è rappresentata attraverso artisti piuttosto vari: Chini, Cavaglieri, Nomellini, Viani, Casorati, Innocenti, Cappelletti… ma il gheriglio di stupore è costituito dall’esposizione di opere ceche. Non che tutte le cose di Váchal siano capidopera, ma rivelano sempre quantomeno una folta, generosa fantasia d’invenzione e un ammaliante sincretismo: Piccole donne selvagge è un capriccio goyesco ad olio, Sonnambulo un olio che ricorda Redon, Seduta spiritica un bizzarrissimo misto d’acquarello e pastello nel quale si vede fluttuare sul capo allungato e profetico di un medium tutta una nazione di esili lemuri, quasi fragili sfoglie di carne, popolosa come quella dei folletti nelle tele di Richard Dadd. Jan Zrzavý è rappresentato con quattro opere, impeccabili ambasciatrici di quel suo mondo soffuso e «soffiato»; ma vi sono anche artisti quali Jan Konupek, e Jaroslav Horejc che si farebbe torto a non citare.
In questa bella esposizione qualche mezza tinta poteva, forse, aggiungersi, giacché esisteva la Monaco magica di Meyrink, che pubblicava i suoi racconti esoterici sulla rivista «Simplicissimus», e la Boemia art nouveau di Mucha, anche se si sarebbe rischiato di far retrocedere nuovamente la lingua delle Secessioni all’esperanto della tradizione; il che si voleva, giustamente, evitare.
Sulle nude mura del Palazzo
A chi voglia, d’altronde, ricongiungere quel che è diviso non costerà fatica ritornare alla seconda sala e indugiare un momento sul Manifesto per la II e la III Mostra della Secessione viennese, dov’è raffigurato il palazzo che l’avrebbe ospitata. In questo sacrario alberga il ricordo dei semplificati volumi neoclassici ma i disegnatori settecenteschi nel ricorrere a puri volumi senza ornamento volevano esprimere energia volitiva mentre questi labili fregi d’oro che corrono sulle nude mura del Palazzo della Secessione potrebbero dirsi il ricamo sul sudario della volontà spenta. Nella stilizzazione dei motivi, comune a tutte le Secessioni, si consumava un sofferto distacco dalla realtà. A questi lettori del Der Garten der Erkenntnis di Leopold Andrian dovevano essere ben noti i versi di Mallarmé «…plusieurs ronds de fumée / Aboli en autres ronds…» che a Giovanni Macchia rammentavano quella «civiltà dei vasi e dei tappeti, ove, scomparsi uomini e figure, regna il gelo della decorazione assoluta» e nella quale «fra i cerchi di fumo di una pipa si dissolvono gli antichi torrenti della malinconia».