Il premier Conte in un question time alla Camera dei deputati sull’interrogazione 3-00897 presentata da Leu, ha chiarito le (cattive) intenzioni del governo sulla procedura da seguire, confermando il tentativo di mettere la mordacchia al Parlamento sulla secessione dei ricchi.

Cosa esplicitamente dice Conte? Tre punti. Primo, alle camere il governo presenterà “pre-intese”; secondo, le pre-intese andranno alle commissioni, per un parere, da esprimere “nella forma di condizioni e osservazioni”, analogamente a quanto accade per i pareri su atti del governo; terzo, il governo si impegna “in vista della predisposizione del testo definitivo dell’intesa” a tenere “nella massima considerazione i rilievi formulati”.

Cosa implicitamente dice Conte? Essendo il testo delle intese “definitivo” dopo l’accoglimento o il rigetto dei rilievi da parte del governo, il passaggio successivo nelle camere del disegno di legge governativo recante le medesime intese non potrà che essere a mera ratifica. È la tesi del «sì o no» copiata dalla cd prassi per i culti acattolici.

Diversamente, Conte avrebbe dovuto dire: A) si va in Parlamento con un testo di pre-intesa che le camere possono pienamente emendare; B) le pre-intese così emendate diventano la proposta del governo alle regioni; C) le regioni decidono se firmare o no le intese rese definitive dal passaggio parlamentare; D) se non firmano si riparte con la trattativa.

La risposta di Conte disegna un percorso incostituzionale. Non è accettabile che l’omaggio verbale alla centralità delle camere ne veda poi ridotto il ruolo a “condizioni e osservazioni” in commissione, e voto di mera ratifica in aula. Per di più, come lo stesso Conte riconosce, “nell’ambito di un percorso riformatore che trasferisce alle regioni competenze legislative e amministrative statali”.

Abbiamo già scritto che l’art. 72 Cost. e le norme regolamentari sul procedimento legislativo vanno nella specie pienamente osservati. Conte fa un parallelo con i pareri su atti del governo. Ma, a parte che in quella ipotesi tener conto o meno dei rilievi è rimesso alla scelta dell’esecutivo, è chiaro che qui non di atto del governo si tratta, ma di atto legislativo, espressione prima della centralità delle camere nell’architettura costituzionale.

Per questo, non è ammissibile che le pre-intese vadano nelle commissioni solo per un parere e poi in aula per mera ratifica. Quindi, non “condizioni e osservazioni” ma emendamenti e voto sul testo, in commissione come in aula.

Non è utile richiamare la prassi seguita per i culti acattolici di cui all’art. 8 Cost., per la evidente diversità delle fattispecie. Inoltre, anche quella cd prassi non presenta una inemendabilità assoluta e cogente. Vi sono precedenti di emendamenti non dichiarati inammissibili e approvati. E dunque non tanto di prassi di inemendabilità dovrebbe parlarsi, quanto di un self-restraint esercitato dalle assemblee per la assoluta peculiarità e specificità dell’oggetto della decisione.

Evidentemente, siamo lontani dal pieno coinvolgimento prospettato – e garantito – dal presidente Fico. C’è da chiedersi se l’uscita di Conte sia stata concordata previamente, o sia stata una mossa a sorpresa, volta a mettere Fico nella condizione di perdere la faccia o di schierarsi contro il governo. Qualcuno poi dirà che la mossa si colloca nella partita interna ai 5Stelle tra governisti e ortodossi.

Ma la dietrologia e la bassa cucina politica alla fine non interessano. Conta invece che non si può lasciare una questione rilevantissima per il futuro del paese a una trattativa governo-regioni. Già hanno fatto danni le “oltre cento riunioni istruttorie” tenute nelle segrete stanze dalla Stefani, che Conte sembra citare con un cenno di incomprensibile autocompiacimento.

Rimane, come ho già scritto, il ricorso di ogni parlamentare alla Corte costituzionale per conflitto tra poteri, per l’evidente lesione dei diritti che la Costituzione e il regolamento gli attribuiscono per l’esercizio del mandato.

Meglio preparare le armi.