La sua figurina sottile col caschetto di capelli cortissimi che corre «Fino all’ultimo respiro» sugli Champs Elysees vendendo l’ «Herald Tribune» è rimasta per sempre l’immagine della Nouvelle Vague, un’icona di stile e di rivolta. Jean Seberg era nata nel Midwest, famiglia luterana di immigrati svedesi e tedeschi, prima di Godard era stato Otto Preminger a scoprirla scegliendola per Santa Giovanna quando aveva appena diciotto anni, sul set l’attrice aveva rischiato di morire bruciata proprio come il suo personaggio, un trauma che non dimenticò anche se con Preminger girerà un altro film, Bonjour tristesse, la ragazza inquieta ossessionata da un morboso amore per il padre. Seberg – presentato ieri Fuori Concorso – comincia però quando lei è già famosa, e la radio mentre si prepara a partire da Parigi per un nuovo set americano racconta il 68 nelle strade e alla Sorbonne, e si concentra sull’incontro con Hakim Jamal, attivista per i diritti degli african american, nel mirino dell’Fbi che metterà sotto sorveglianza (illegale) anche la star colpevole di essere troppo politicizzata – «Non vorrei che mia figlia la imitasse» tuona uno dei capi della sezione speciale Counterintelligence Program Black Nationalism Hate Groups.

SEBERG frequenta le Black Panthers, a casa sua, lussuosa villa hollywoodiana arriva Bobby Seale, lei supporta la lotta con donazioni, e nell’America di Hoover – così simile a quella attuale – diventa un pericolo, devono distruggerla. La spiano, riempiono la sua casa di microfoni, telecamere, sorvegliata in ogni istante del giorno e della notte viene massacrata fabbricando scandali che la screditano; le distruggono la carriera a cominciare dalla sua relazione con Jamal, e poi il sospetto che la figlia di cui era incinta fosse sua – perduta per lo stress emotivo – e non del marito.

LA DEPRESSIONE la travolge fino a quell’8 settembre 1979 quando il corpo dell’attrice viene ritrovato in una Renault nelle strade di Parigi. Le bottigliette di acqua e i flaconi di barbiturici vuoti dicono che è stato un suicidio ma qualcuno ha dei dubbi: l’hanno uccisa? Sì anche se non «direttamente» ma con la macchina spietata di violenza ancora più forte contro di lei, donna e bianca che ha tradito la sua «razza», e con la sua vita libera minava da profondo il patriarcato di casette tutte uguali e donne sorridenti destinate a essere mogliettine e brave madri di mariti picchiatori. Un metodo è sempre attuale come dice Kristen Stewart che Benedict Andrews ha voluto per interpretare Seberg, anche lei un’icona del contemporaneo: «Oggi chi ha il controllo delle fake news può rovinarti la vita. E in un’epoca di social tutto è più complicato per questo penso che il film riguardi molto l’america attuale».

È DUNQUE su una contemporaneità della figura di Seberg che ha puntato Andrews nella sua rilettura della divina Jean producendo però l’effetto opposto. Una donna libera che sceglie, insofferente alle regole della sua immagine «patinata» appare qui ingessata nel suo stesso ruolo, sedotta da Black Panthers senza scrupoli – Bobby Seale volgare e avido di denaro che nemmeno in un rapporto di Hoover. Mentre l’eroe buono diviene l’agente Fbi pentito – appassionato fan di Capitan America con moglie che studia per essere medico- che proprio come il fumetto cercherà di mettere tutto a posto o quantomeno di mostrare che Fbi e Cia sono anche onestà e integrità. Si capiscono le esigenze di «parlare al grande pubblico» o di rendere accessibile in chiave pop questa vicenda ma Andrews non sa manovrare né il tema né il meccanismo, semplifica con superficialità la storia e i suoi obiettivi in un modo che non diverge poi dalle «versioni ufficiali». Siamo a buoni contro cattivi, il solito e confortante schema. La storia è sempre più sfumata, e le interpretazioni dovrebbero – specie se aspirano al pop – tenerne conto.