B.R. – Ancora un film filosofico e insieme politico questo tuo nuovo film. Un film che però rilancia un po’ tutto il tuo cinema, su un terreno azzardato, radicale, imprevisto. Il titolo è un nome proprio, quello di un martire cristiano, SebastianO con una O scritta in grande, che allude a un cerchio, a una Omega, a un “Oculo” ( che è un occhio , e che tra l’altro è una ossessione della pittura di Mantegna da cui tu sei partito), ma soprattutto a una apertura , a un “Foro” a un varco, una breccia nel muro, come tu stesso scrivi nelle note di regia del film. Il film mi pare tutto costruito su queste aperture, in modo che il “fuori” entri dentro l’immagine. Ed è un “Fuori” della Storia, un “Fuori” del pensiero, un “Fuori” addirittura del cinema. Tutto questo mi pare accenni a una circolarità insita del film. Che cos’è questa ‘circambulatio’ rituale, questa circolarità ? E dov’è il punto di intersezione ? Tra i due tempi: l’oggi , che è a colori, e che è invaso dalle rovine antiche del Foro romano intorno a cui circolano le auto, la quotidianità del presente, i due turisti che sono innanzitutto stranieri ( ancora una volta nel tuo cinema ritorna questa figura), e il passato all’inizio della cristianità, che è come dire all’inizio dell’Occidente, ma anche alle radici ‘italiche’ e arcaiche della nostra civiltà, dal momento che l’itinerario del martire accompagnato dai soldati romani confluisce in un ‘bosco sacro’ che tu hai ritrovato in terra etrusca, e che è certo un vortice, un punto di scaturigine, origine anzitutto della luce , che proviene dalle latebre di quell’ombra selvaggia, come un vortice dionisiaco, estatico, dove si attinge alla visione ‘prima’? E quale è l’inizio e quale la fine , l’alfa e l’omega, delle immagini, della storia, del cinema?

F.F. – E’ essenziale nel film questa circolarità di cui parli, ma anche perché risponde a una esigenza che è un tentativo radicale di mettere insieme, sovrapporre le dimensioni. In questo senso la lezione di Mantegna da cui partiamo ha il senso di una tensione riuscita tra due dimnsioni: nonostante lui cominci il lavoro di prospettiva , il suo lavoro di composizione è anti-prospettico, è anti punto-via-di-fuga , rimettendo in asse ogni volta la mancanza di una via di fuga, di una prospettiva lineare, instaurando appunto una circolarità. Questa è una nostra esigenza di ribaltamento . Mettere in gioco la rovina, la ferita del corpo è un modo per mettere in discussione qualsiasi meccanismo di trascendenza pura, per andare verso una sorta di materialismo cosmico.

B.R. In questo senso tu citi nelle note di regia dei versi del Paradiso dantesco che evocano la ‘carne santa e gloriosa’.

F.F. – In Dante si pone la questione della visibilità dei corpi, della loro consistenza, anche nella Visio beatifica. La carne e il corpo diventano gloriosi al di fuori di ogni riscatto trascendentale. Qui si pone allora la domanda ‘perché Sebastiano oggi?’. Nonostante l’intenzionalità vada da un’altra parte Sebastiano , e la ‘traiettoria’ della freccia, lo mantiene in eterna presenza al dato fisico. C’è solo il corpo ‘dato’ che sta fermo a ricevere le frecce, senza nessun verbo, che non sia appunto la sua carne, che ‘sta’ , che è consustanziale.

B.R. – Si tratta di quello che i primi cristiani chiamavano corpo di gloria , e anche dell’idea paolina del ‘tempo che resta’, di un avvenire che non può prescindere dallo stare. C’è un peso specifico di questa consustanzialità dei corpi anche se nel tuo film i corpi non cessano di ‘andare’, di ‘deambulare’. Questo nel tuo cinema ha sempre a che fare con il ‘depositarsi del tempo’, con l’andamento (anche e soprattutto musicale) della durata. C’è uno stare e un avvenire delle immagini nei tuoi film. Come un Canto fermo che assume la forma metamorfica di un canone circolare che è anche una fuga musicale, che involve ed evolve ( come la curva barocca).

F.F. Si in questo senso quello che hai davanti lo ritrovi dietro, circolarmente. Non c’è un prima e un dopo. Quello che avviene è anche uno stato , lo stato di passaggio di un è stato . Questo è il movimento paradossale del cinema, delle immagini, che vanno interrogate in questo ‘punto’. Quello che lasci dietro te lo ritrovi davanti, questa cosa nel film è continua. Questa è l’esigenza cruciale del nostro vivere oggi: anche rispetto alla necessità di un ‘avvenire’. Anche in rapporto all’immagine. Della possibilità di un cinema a venire. In rapporto alla riproducibilità delle immagini, al ‘termine’ del reale, a questa ondata di documentarismo che è solo un presentarsi e non una presenza . Da qui l’esigenza di un lavoro che rimetta in assetto e insieme sovrapponga, per aprire , mettere in movimento a partire da uno stato.

B.R. Certo alcune immagini del cinema ‘del reale’ oggi sembrano ‘lasciare il tempo che trovano’, piuttosto che lavorare sui ‘resti del tempo’ o sul ‘tempo che resta’, ovvero ‘far restare il tempo che si lascia’, che si deposita. Il senso dei tuoi film è proprio questo ‘ribaltamento’ rispetto a un ‘reale’ che sembra non lasciarsi vedere in quanto punto cieco, vortice, buoc ( come direbbe Lacan). Questo film mi sembra che rispetto ai tuoi altri attui una ek-stasis, come se il film ‘uscisse da se stesso’ e l’ immagine assumesse via via una sorta di autocoscienza. Se tu hai lavorato finora ‘dentro l’immagine’, quasi ‘escavandola’ per poi farne uscire le linee, liberarle, adesso, con una specie di ‘balzo’ poni l’immagine ‘fuori di sé’, lavori sui fuori tempo, più che sui fuori campo. Il punto di presa, benché incommensurabile, che con Quattro notti di uno straniero, con Penultimo paesaggio, e anche con Piano sul pianeta , veniva rintracciato nello scavarsi dell’immagine, qui viene liberato come punto di intensità che ‘balza’ fuori. Va fuori pur restando, o meglio facendo lavorare il resto, il residuo, che non può essere sterminato dall’omologazione del senso e dell’immagine. E l’immagine, su una linea di autocoscienza, arriva a una impersonalità del ‘fuori’ ( quel pensiero del “da fuori” che Roberto Esposito invoca per una rifondazione della filosofia europea, e che già costituiva una eteronomia nel ‘pensiero del fuori’ foucaultiano) . In tal modo il film cerca in ogni punto una sorta di uscita, di varco, di apertura. Queste divaricazione, intersecazione, ribaltamento hanno a che fare con la scelta di usare il colore sul versante dell’andare degli stranieri nell’oggi, fra le rovine, e il bianco e nero sul versante del moto ‘a luogo’, del tragitto circolare e paradossalmente infinito nel suo oltrepassare la direzionalità della freccia, del corpo glorioso di Sebastiano?

F.F. – I film nascono dalle esigenze concrete, cui sottendono, nel ‘peso’ con cui ci si addossano le immagini che si fanno, una serie di tensioni di pensiero che non hanno intenzionalità. Ce ne siamo accorti dopo di quello che dici. L’esigenza di mettere insieme, in tensione, il dentro e fuori, attuando una ‘sparizione’ rispetto all’immagine di Mantegna. Facendo sparire in un certo senso l’immagine, dislocando le frontalità. Riportando l’immagine a una sua costituzione ‘a venire’ verso la presenza degli elementi. E il bosco finale assume questo senso, questa evidenza: entrare e uscire, entrare e uscire.

B.R. Il bosco è un vortice di immagini, un turbinio. Si prova la vertigine che forse è alla base dell’ ”aria di Roma”. Dalle rovine colossali ( di cui Piranesi colse l’abissalità) alle volute a picco e a precipizio, alle curve vertiginose del Barocco.

F.F. Non a caso stiamo realizzando un film Colossale sentimento su uno scultore romano, che Bernini odiava , Francesco Mochi. Uno scultore che nell’ultima fase della sua vita ha avuto una serie di rifiuti, di committenze rifiutate. Abbiamo cercato di mettere in assetto, di riposizionare alcune cose di questo scultore, riportando ‘a casa’ le sue immagini , laddove lui le aveva pensate, per esempio a San Giovanni dei Fiorentini, a via Giulia. Tutto nasce dalle immagini del pensiero e dalla necessità di un loro ‘riassetto’ . Pensiamo di pensare, pensiamo di vedere o di avere a che fare con le immagini secondo una nostra appercezione, ma in realtà il pensiero, le immagini sono condizionati, continuamente posti in condizione e in necessità di rendere conto a un loro fuori, a un fuori che determina e insieme dissolve. E’ un modo di porsi rispetto alla prospettiva, alla visione, alla percezione, un modo necessario. Per questa necessità è passata anche la scelta del colore e del bianco e nero che in qualche modo si attrggono e si respingono tra loro, essendo apparentemente determinati. L’idea perentoria che il cinema abbia a che fare con uno sguardo, che poi determina l’immagine è proprio ciò che necessita di un riassetto che è anche una messa in questione, in discussione, in conflitto. Il cinema che voglio fare, che vogliamo fare , è un cinema che destabilizza. Che risponde all’esigenza di rompere questo muro, di ‘fare breccia’, di aprire un varco tra le immagini.

B.R. – Un varco che nel film è spaziale e temporale , e tutto proiettato, proteso nel fuori, in una e-statica fuoriuscita.

F.F. – In questo senso la separatezza, la distanza tra sguardo e immagine, va messa ‘fuori gioco’

B.R. – In una empatia?

F.F. Se la ‘distanza del vedere’ fa sì che un dato ‘apparentemente’ reale sembra ‘darsi a vedere’ , il nostro tentativo , si può anche chiamare di empatia, è sovrapporre simultaneamente per farsi attraversare dalle immagini, nel-dal loro dentro-fuori. Ed è un atteggiamento politico che fa ‘fuori’ ogni illusione di presa di posizione o di distanza. E’ una coalescenza del vedere, e in questo caso vedere l’ascolto, la musica che emerge anche dal lavoro Quando dal cielo ( wea aus dem Himmel… che è un verso di Holderlin), in cui la giusta ‘distanza’ e ‘posizione’ ha a che fare proprio con un attraversamento, e un entrare e uscire dalla/nella musica e dal-nel suo luogo durata tre anni, insieme a Paolo Fresu , Daniele Di Bonaventura e un grande ‘costruttore di suoni’ come Manfred Eicher.

B.R. – Questo stare in ascolto, attraversare, far risuonare, accompagnare che contraddistingue l’andamento dei tuoi film, film dello’stare accanto’ nella veggenza e nell’erranza, in Sebastiano si fa ripercussione, balzo dell’intersecare tempo e luce, direi lichtung e temporalità dell’essere , in qualche modo sui sentieri heideggeriani ma oltrepassandoli in senso radicalmente immanente.

F. F. – Controllare e accogliere quelli che tu chiami punti di intersezione. ù

B.R. – E’ l’occhio delle cose, come diceva Vertov. C’è una sorta di ‘messa fuori’ dell’immagine da se stessa, Un dissolvimento che è anche un ‘colpire il punto’ dell’immensurabile.

F.F. – Tu parlavi del colore, anche lì c’è una com-presenza ma anche una saturazione del colore. E’ un modo perché nell’uscire fuori da sé l’immagine sia riconosciuta. E’ come l’atto d’amore, dove nella compresenza non si sa mai dove sia una ripetizione di ciò che si è già ( o mai) visto. Una dimensione coattiva che fa rimbalzare, ripercuotere come dicevi, il vuoto del corpo e dell’immagine, nella sua sostanza.

B.R. – Sostanza o corpo delle immagini il cui paradosso è uno stare e insieme uno sparire nel vortice dell’occhio. Dell’oculus.

F.F. – E’ una coattività. E’ fugace, come è fugace tutto questo vortice di attraversamento, senza nessuna composizione. Ma c’è però un prendersi cura, in uno spazio vicendevole,in uno spazio che non può essere pieno, ma che oscilla tra il dentro e il fuori, lo svuotarsi e il riempirsi. In questo senso siamo circondati, non c’è una separazione. E’ un interrogare continuo del circolo delle immagini.