«Penso al mio film come a un cavallo di Troia», ha detto Sebastian Lelio del suo nuovo lavoro – Una donna fantastica – in uscita il 19 ottobre dopo il passaggio in concorso alla Berlinale, dove il film è stato premiato con l’Orso D’Argento alla sceneggiatura (scritta insieme a Gonzalo Maza). «La sua facciata sembra essere classica – ha continuato infatti il regista – ma al suo cuore c’è un personaggio, Marina, che non potrebbe essere meno convenzionale, e questa contraddizione è la scintilla che rende il film ciò che è».

Interpretata dalla cilena Daniela Vega, Marina è una cantante transessuale; il suo compagno Orlando (Francisco Reyes), di vent’anni più grande, si sente male nel cuore della notte e a niente vale la corsa dei due all’ospedale: morirà di lì a poco, e la sua famiglia impedirà in tutti i modi a Marina di partecipare al lutto per l’uomo che amava.
«Il fatto che lei sia transessuale – dice Lelio – è solo la base della complessità raccontata dal film, che per me è una riflessione sui limiti dell’empatia – un problema con cui ci confrontiamo oggi in tutto il mondo – su ciò che siamo disposti a concedere agli altri. La nostra empatia si ferma alla famiglia, a una nazione, a una razza? Esistono amori meno legittimi di altri? E se si chi lo decide, e su quali basi? ».

Il personaggio di Marina così come la sceneggiatura, racconta ancora Lelio, è nato dal suo incontro e le sue conversazioni con Daniela Vega, cantante lirica, transessuale a sua volta, che il regista ha conosciuto tornando a Santiago del Cile da Berlino, dove vive, proprio per lavorare a Una donna fantastica dopo il suo precedente Gloria – che era valso alla protagonista Paulina Garcìa l’Orso D’Argento alla miglior attrice nel 2013.

Ed è stato proprio dopo aver visto Gloria, racconta Lelio, che sia il suo amico di vecchia data Pablo Larraìn che la regista tedesca Maren Ade si sono offerti di coprodurre il suo prossimo progetto – anche prodotto dalla statunitense Participant Media – Una donna fantastica appunto: «Un film trans-genere, oltre che su una donna transgender», aggiunge Lelio.
«Come la sua protagonista infatti non è facilmente etichettabile, riconducibile a una singola idea: è una storia romantica, un thriller, con delle ’venature’ di Buster Keaton e Busby Berkeley. Devo a Daniela Vega, alle numerose conversazioni con lei, il fatto che Una donna fantastica sia in grado di spingersi in territori per me inesplorati». Il «divieto» del lutto, le prove che Marina deve affrontare per poter piangere l’uomo che amava, è invece un tema e un sentimento – a detta del regista – molto vicino alla società cilena tutta: «Considerata la nostra storia recente, l’impossibilità o il divieto di dare l’estremo saluto ai propri cari è qualcosa che tutti noi sentiamo profondamente».

Poter piangere chi si ama, continua il regista, è un diritto umano. «Ma per me era ancora più importante chiedermi come mai siano tutti così turbati, perfino spaventati da Marina. L’unico a essere del tutto al di sopra dei giudizi è il suo cane. Una cosa che si può vedere sia in chiave pessimista – siamo meno ’umani’ perfino di un cane – o ottimista: forse un giorno ce la faremo a essere ’umani’ almeno quanto un cane. Ma il film non vuole dare risposte, solo porre la domanda».

Una domanda che riguarda l’ identità stessa, di Una donna fantastica come di Marina: sullo «stadio» della sua transizione il regista mantiene il mistero. «Il problema è appunto se l’identità sia da ricercarsi nei genitali di una persona o piuttosto altrove. E lo stesso vale per il film, la sua identità è nella forma – nella sua struttura a metà tra storia romantica e thriller – o in qualcosa che va al di là?».
Oltre soprattuttoil concetto fuorviante di «normalità», che a detta del regista ci consente di essere pigri, di nasconderci, ma non ha nulla di stimolante: «I grandi cambiamenti di solito accadono da qualche parte al di là della ’normalità’, che è un’idea in cui non credo e che ritengo essere un artificio politico per normalizzare l’esistenza».