La rivendicazione della terra che gli appartiene è, per il popolo palestinese, non solo una questione di sopravvivenza quotidiana e lotta per la libertà, ma anche il diritto alle radici più antiche. Nel perenne intento di dimostrare chi era lì prima degli altri, i sionisti non hanno esitato a trasformare la Palestina in una specie di arcipelago delle Cicladi, deformando le carte geografiche pur di inglobare dalla loro parte i siti archeologici più importanti.
In seguito agli accordi di Oslo del 1993, Gerico e il palazzo di Erode a sud di Betlemme, sono di proprietà dello Stato d’Israele. Un caso emblematico è rappresentato da Sebaste, la Samaria della Bibbia, localizzata oggi nel nord della Cisgiordania. Dal punto di vista amministrativo, due terzi del sito sono governati dagli israeliani, un terzo è gestito dai palestinesi. Tuttavia, l’intera zona è controllata militarmente da Israele. In queste difficili condizioni, opera dal 2013 una missione archeologica franco-palestinese, sostenuta dal Ministero francese per gli affari esteri e lo sviluppo internazionale e dal Ministero palestinese per il turismo e le antichità.
Jean-Sylvain Caillou, direttore dell’antenna dell’Institut français du Proche-Orient (Ifpo) nei territori palestinesi e Hani Nour Eddine, professore all’università Al-Quds di Gerusalemme Est, lavorano fianco a fianco in un progetto di ricerca e formazione, un vero e proprio cantiere-scuola che coinvolge studenti e specialisti dei due paesi. In videoconferenza da Gerusalemme, hanno risposto entrambi alle nostre domande.

Con quale scopo è nata l’antenna dell’Ifpo nei territori palestinesi?

J.-S. Caillou: In Palestina esisteva già da più di un secolo un’attività archeologica promossa dall’Ecole biblique et archéologique française de Jerusalem, mamancavano le strutture per accogliere i ricercatori. La Scuola si occupa – per definizione – di archeologia ed esegesi biblica, mentre le competenze dei membri del nostro istituto spaziano dall’epoca classica all’età contemporanea. Il nostro compito è di offrire alla Palestina un appoggio finanziario e scientifico e di far uscire dall’isolamento chi non può espatriare. Vogliamo permettere agli archeologi palestinesi di esistere e di acquisire i mezzi necessari per lavorare autonomamente a casa loro.

Come si orienta l’attività di scavo?

J.-S. Caillou: L’antenna dell’Ifpo nei territori palestinesi si è sostituita a un progetto di cooperazione gestito da un’Ong italiana, un’équipe di architetti che eseguiva perlopiù scavi di salvataggio e restauri. Io sono specializzato nello studio delle sepolture e per questo mi sono indirizzato verso Sebaste – la principale città greco-romana della Palestina – dove si trova una necropoli rilevante, conosciuta fin dal XIX secolo. Il sito non veniva indagato da circa cinquant’anni e l’ultima pianta realizzata risaliva a prima della seconda guerra mondiale. Le nostre ricerche hanno permesso di avere una migliore conoscenza della topografia della città nelle sue fasi romana e bizantina. Alcune reinterpretazioni sono state possibili: ad esempio sappiamo ora che l’edificio identificato come stadio è probabilmente un tempio.

In cosa consiste, invece, l’offerta formativa?

H. Nour Eddine: La didattica è essenziale per il nostro progetto, vogliamo creare una generazione di studenti preparati nella tecnica stratigrafica. All’università Al-Quds, si può ottenere il bachelor in archeologia e l’insegnamento è incentrato sulla storia della Palestina durante tutti i periodi storici che l’hanno attraversata, dal paleolitico all’età islamica. Non si trascura, tuttavia, lo studio delle civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto.

I giovani palestinesi che vanno a studiare archeologia all’estero, tornano poi nel loro paese per dare un contributo allo sviluppo della disciplina?

H. Nour Eddine: Sì, ne sono io stesso un esempio. Non ci sono molti archeologi in Palestina ed è difficile convincere gli studenti a investire le loro energie in questo mestiere. L’università Al-Quds è all’avanguardia in questo senso, perché si può arrivare fino al livello del Master. Invece a Birzeit (la seconda università della Palestina, ndr), così come nelle università di Hebron, Nablus e Gaza, l’archeologia è un insegnamento minore, complementare alla Storia.

Quali sono i problemi e le sfide dell’archeologia nei territori palestinesi?

J.-S. Caillou: Il nostro scavo a Sebaste si svolge a tutti gli effetti sotto l’occupazione. L’Ifpo ha un mandato per lavorare dal lato palestinese ma poiché la maggior parte dei terreni sono privati, per ottenere le autorizzazioni dobbiamo costantemente negoziare i permessi con i proprietari. Le cose sono complicate anche dal punto di vista della promozione turistica. Pur essendo al di fuori dai grandi circuiti di pellegrinaggio, molti stranieri si spingono fino a Samaria per venerare la memoria della tomba di San Giovanni Battista.
In seguito ai lavori di restauro effettuati dagli italiani su alcuni edifici del villaggio moderno e alla creazione di piccoli alberghi, comincia inoltre a svilupparsi un turismo locale che riguarda gli «espatriati», ovvero persone che lavorano nei consolati, nelle Ong e che vengono qui per trascorrere il fine settimana. I palestinesi fanno degli sforzi apprezzabili per incoraggiare il turismo, ma le tensioni con gli israeliani sono all’ordine del giorno perché Samaria è un luogo strategico per la propaganda del movimento sionista.

Il fatto che nel 2011 la Palestina sia stata riconosciuta come membro dell’Unesco, ha portato dei vantaggi?

J.-S. Caillou: Al momento la situazione è persino peggiorata perché alcuni progetti sostenuti in precedenza dall’Unesco vengono ora osteggiati da Israele, specialmente in termini di accesso a Gaza. In più avendo gli Stati Uniti ritirato la loro parte di sovvenzioni all’Unesco, il budget generale è diminuito e i paesi più fragili ne risentono.

Ci sono dei siti in pericolo di sparizione nei territori palestinesi?

J.-S. Caillou: Il commercio di reperti è legale in Israele e ciò favorisce i saccheggi in Palestina, perché se la polizia israeliana può permettersi di sorvegliare i siti, le autorità palestinesi non hanno i mezzi finanziari per assicurarne la tutela. I saccheggi sono massicci, gli oggetti sottratti alla Palestina finiscono nel mercato israeliano che è anche al centro dei traffici con l’Iraq e la Giordania.

A proposito del ritrovamento di una statua bronzea di un Apollo a Gaza, di cui abbiamo avuto eco sulla stampa italiana, come vengono gestite le scoperte nella Striscia?

J.-S. Caillou: La storia dell’Apollo di Gaza è effettivamente misteriosa. E’ molto probabile che la statua sia stata rinvenuta in mare, così com’è stato raccontato. Ma ci sono alcune testimonianze che dimostrerebbero che la sua scoperta è avvenuta invece su terra. A Tell Rafah, nel sud della Striscia, e in altre zone ci sono degli scavi ufficiali di cui arriviamo ad avere notizie. Per quanto concerne le scoperte fortuite non sappiamo cosa succeda esattamente.
Non bisogna dimenticare che, vista la situazione drammatica di Gaza, il primo istinto è quello della sopravvivenza e la gente cerca di guadagnare del denaro dalla vendita dei reperti. Inoltre, la pressione immobiliare è molto forte. Se durante un cantiere edile ci s’imbatte nelle rovine, la tendenza è quella a non dichiararle. Anche quando ciò avviene, la Direzione alle antichità non ha i mezzi per condurre gli scavi e così l’interesse istituzionale è costretto a piegarsi alle logiche economiche, demografiche e politiche. Da qualche anno però, a Gaza è stato inaugurato un museo archeologico e c’è un ricco abitante della Striscia che ha comprato moltissimi reperti perché fossero conservati in loco. Di questa collezione è stato pubblicato di recente anche il catalogo.

Qual è il futuro dell’archeologia in Palestina? Le collaborazioni con gli archeologi israeliani sono possibili?

H. Nour Eddine: Non vediamo futuro, l’archeologia si riflette nella vita complessa della Palestina. Le difficoltà investono ogni campo e i conflitti tra i vari partiti politici hanno degli effetti negativi anche sulle attività accademiche e culturali. Con l’università Al-Quds vorremmo promuovere scavi archeologici ma questo dipende dai fondi e le priorità – specialmente a Gaza – sono umanitarie. In Cisgiordania, inoltre, siamo «in trappola». Gli spazi dove i palestinesi hanno i permessi per scavare sono pochissimi, il grosso è nelle mani degli israeliani. Cerchiamo di lavorare dov’è possibile con scavi preventivi ma non possiamo andare oltre.
La nostra terra è un puzzle. Quando gli archeologi israeliani ci chiedono di collaborare, è per opportunismo perché la Comunità europea concede fondi per la cooperazione. Noi li boicottiamo. Il processo di pace passa anche attraverso il riconoscimento del nostro passato e poiché vogliamo lavorare a condizioni dignitose, non ci resta – come sempre – che resistere.