«Quando si cresce senza giocattoli comprati in negozio (…) si impara un po’ di bricolage. Frammenti di spago, pezzettini di legno. Ci si costruisce di tutto, per esempio ragnatele legate alle gambe di una sedia. E poi ti ci siedi sopra, come il ragno al centro della tela». Nell’agosto del 2001 il giornalista del New York Times Arthur Lubow andava in Inghilterra in visita a W.G. Sebald, per preparare un ritratto dello scrittore nell’imminenza della pubblicazione del libro che sarebbe stato considerato il suo capolavoro, Austerlitz. Il pezzo sarebbe uscito solo all’inizio di dicembre, pochi giorni prima che Sebald trovasse la morte in un incidente stradale. Frammenti della conversazione tra Sebald e Lubow come quello riportato sopra assumono così una coloritura crepuscolare, ma allo stesso tempo gettano luce sull’opera di uno degli scrittori fondamentali di fine Novecento, che non smettiamo di interrogare e che non smette di interrogarci. I lettori italiani possono ora trovare il lungo articolo di Lubow nel libro Il fantasma della memoria Conversazioni con W.G. Sebald (Treccani «Visioni», traduzione di Chiara Stangalino, pp. 161, € 17,00, prefazione di Filippo Tuena), insieme a numerosi altri contributi sull’autore tedesco raccolti dalla curatrice del volume Lynne Sharon Schwartz. Le «conversazioni» del sottotitolo sono da intendere nel senso letterale del termine, come interviste, e in quello più ampio di letture, confronti e scontri con le opere di Sebald da parte di autori e critici (tra gli altri, ricordiamo Tim Parks, Charles Simic e Michael Hoffmann). Ma sono le parole di prima mano dello scrittore quelle più utili a farci entrare nella fucina dei suoi testi e a determinare il valore di questo libro. Ed è dunque opportuno ritornare alla citazione iniziale dalla conversazione con Lubow, che ha il pregio di essere una lente straordinariamente efficace attraverso cui guardare l’opera di Sebald. In essa, si può dire, sono concentrati un’esigenza, un metodo e una postura: tre fili annodati, in questo piccolo aneddoto infantile, che si possono seguire nei diversi quadri del corpus sebaldiano e che mille altre volte, in quest’opera a un tempo così omogena e multiforme, si riannodano.
Un’esigenza, un metodo e una postura: prendiamoli allora separatamente, proprio a partire da questo aneddoto. La necessità di costruirsi dei giocattoli, non avendone di altri «già pronti», sembra richiamare la condizione di povertà della memoria da cui nasce la scrittura sebaldiana. Nato in un villaggio delle Alpi bavaresi nel maggio 1944, Sebald si scontra fin da giovanissimo con il silenzio degli adulti – i famigliari e le figure di riferimento nelle istituzioni scolastiche e universitarie – sugli orrori della guerra. Di guerra non si parla, né della violenza agita e nemmeno di quella subita dal popolo tedesco, tanto che – come Sebald scrive nel suo primo libro, Vertigini – alla vista delle città bombardate nelle immagini dei cinegiornali, l’autore da bambino era indotto a pensare che i cumuli di macerie fossero «una circostanza per così dire naturale, tipica delle grandi città». Quel difetto di maturazione della memoria collettiva spinge Sebald a tagliare i ponti con la Germania (dal 1970 si trasferisce in Inghilterra) e a compiere il proprio viaggio nel passato, per espiare il buio ricevuto in eredità.
E qui passiamo dall’esigenza al metodo, perché così come il bambino senza giocattoli «impara un po’ di bricolage» e lo applica ai pezzetti di spago e legno che trova, così l’individuo senza memoria raccoglie i resti del naufragio della storia, quelli che trova abbandonati sulla spiaggia del tempo, per farsene un’imbarcazione – usando una metafora cara al filosofo Hans Blumenberg. Ma le metafore acquatiche non sono così pervasive in Sebald quanto quelle che riguardano la polvere, la sabbia, il fumo e i roghi. «Mi devo sbrigare in una settimana o due a raccogliere cose, proprio come farebbe qualcuno che sta lasciando un appartamento in fiamme, cioè a casaccio»: così Sebald sul lavoro di ricerca in archivio, nella fase di preparazione dei suoi libri. A differenza di uno storico di professione, l’autore tedesco passa al setaccio documenti (diari, foto, cartoline) senza un progetto preciso, ma in uno stato contemporaneamente ricettivo e intuitivo, confidando nel dio delle coincidenze, vero nume tutelare che permea le pagine sebaldiane. Da quei frammenti di spago e legno che sono le immagini, le parole degli archivi e i ricordi personali, lo scrittore ricostruirà la ragnatela della memoria: «mettere insieme pezzi che non sembrano avere nulla in comune» è per lui la fascinazione di tutta una vita. Ma ciò non soddisfa soltanto il gusto di risolvere un gioco enigmistico, è al contrario un’istanza morale: «quando manca la memoria, l’arte ne fa le veci» commenta Ruth Franklin nel suo contributo sul poema di Sebald Seconda natura. «Ma si tratta di una scorciatoia, non di un degno sostituto», prosegue subito dopo Franklin: «Sebald estetizza la storia, ma non la confonde mai con l’arte».
E veniamo qui alla postura del ragno nella ragnatela della memoria. Quella rete tesa avventurosamente, infatti, presuppone sempre che ci sia un soggetto (parziale, individuale, imperfetto) seduto al suo centro, qualcuno in carne e ossa che – tentando di fare il lavoro della memoria – può aver «raccolto il filo sbagliato» e creato soltanto un’illusione. Di questo pericolo Sebald è perfettamente conscio, e tale consapevolezza si fa per lo scrittore preoccupazione deontologica così rilevante da indurlo a mettere in discussione la stessa forma romanzesca, intesa nel senso classico di narrazione impersonale. E qui abbiamo parole illuminanti di Sebald, pronunciate quasi vent’anni fa e che anticipano con chiaroveggenza l’affermazione dell’autofiction nel panorama letterario, di cui siamo testimoni da un po’ di anni a questa parte. «La storia proviene dalla mente di qualcuno» dichiara lo scrittore, e continua: «Nella scienza è un fatto risaputo ormai da moltissimo tempo. Il paesaggio cambia a seconda di chi lo osserva, dunque penso che l’osservatore debba far parte dell’equazione». (Ma non si deve pensare che Sebald sia tanto ingenuo da far coincidere tout court il narratore con la persona autentica).
Già dai temi sprigionati da questo semplice spunto biografico è facile capire come l’opera di Sebald sia attraversata da domande fondamentali, assimilabili a quelle poste dalla riflessione filosofica sulla scrittura della storia nel secondo Novecento (a partire da Barthes, e passando per Lyotard, De Certeau, Hayden White ecc.). Ed è lo stesso Sebald a riconoscersi una sensibilità filosofica che sopravanza quella del semplice storico, a cui non sono permesse domande di natura metafisica – mentre lui non fa fatica ad ammettere che «se c’è una cosa che mi interessa è proprio la metafisica». L’opera di Sebald si può dunque leggere, in ultima analisi, come una cattedrale metafisica che ha per oggetto esclusivo il tempo. Un oggetto degno di timore e ammirazione, che però si disfa sotto le dita di chi appena lo sfiora come l’uniforme del cacciatore tirolese conservata in una soffitta del paese natale di Sebald, e ricordata dallo scrittore sempre in Vertigini. Così, la realtà ontologica del tempo finisce per andare in rovina sotto i colpi dei giochi di corrispondenze sebaldiani, che riecheggiano l’affermazione di Vladimir Nabokov (presenza aleggiante in un’altra opera dello scrittore tedesco, Gli emigrati) nel memoir Parla, ricordo: «Confesso di non credere nel tempo. Mi piace ripiegare il mio tappeto magico, dopo essermene servito, in modo da sovrapporre una parte del disegno all’altra».