Il nuovo documentario distribuito da Netflix, Seaspiracy, denuncia l’impatto della pesca sull’ambiente. E’ fra i più visti e più discussi della piattaforma.
Il suo attacco frontale, che mostra oltre alle conseguenze devastanti sull’equilibrio degli ecosistemi anche la crudeltà e l’insensatezza di talune pratiche, non poteva che suscitare le ire dei principali accusati, i colossi dell’industria del pesce, che nel documentario rimangono sullo sfondo di uno scenario inquietante: tonnellate di plastica rilasciata con le reti, milioni di vascelli che solcano le acque, reti a strascico che possono inglobare dieci cattedrali, stragi inutili di specie preziose, un prelievo intenso e continuo che i sistemi naturali non sono più in grado di compensare. Il National Fisheries Institute (Nfi) ha scritto a Netflix criticando aspramente il prodotto, definito come 90 minuti di propaganda vegana piuttosto che un documentario. Ma anche alcuni dei soggetti a cui dà voce hanno mosso delle critiche.

IL DOCUMENTARIO E’ IL VIAGGIO del giovane regista Ali Tabrizi, che parte con la sua telecamera per mettere davanti ai nostri occhi quello che si cela dietro il pesce che finisce sulle nostre tavole. Si comincia in maniera forte, mostrando come i teneri delfini nella baia di Taiji, in Giappone, vengano massacrati a migliaia. Il motivo? I delfini mangiano il tonno, e sono quindi concorrenziali al mercato. C’è probabilmente meno tonno rosso nel mare che nel mercato di Taiji, dove il regista vede anche una quantità enorme di pinne di squalo, altra specie che non se la passa bene; per quanto risultino meno simpatici dei delfini, la loro attività predatoria è fondamentale per l’integrità di quella catena alimentare che preserva gli ecosistemi. Dove gli squali sono calati, si vede: per esempio con la morte della barriera corallina. Oltre che del taglio delle pinne, gli squali sono vittime di un meccanismo che falcidia altre specie, come tartarughe, delfini, foche, uccelli e qualsiasi altro animale che finisca nelle reti delle navi che rastrellano i mari: la cattura accessoria riguarda il 40% del pescato mondiale.

GLI ATTIVISTI FRANCESI DI SEA SHEPHERD nel documentario affermano che sulla costa francese muoiono in questo modo circa 10.000 delfini all’anno. I «pirati del mare» danno la caccia a pescherecci che non agiscono secondo le regole, e oggetto dei loro arrembaggi, sempre secondo quanto dichiarano nel film, sono state anche imbarcazioni che recavano il marchio Dolphin safe. E qui arriviamo a una delle controversie. Il regista intervista Mark Palmer, dell’International Marine Mammal Project (Immp) uno degli organismi internazionali responsabili del marchio che dovrebbe certificare che il prodotto a base di tonno in questione sia stato pescato senza catturare alcun delfino.

ALLA DOMANDA «SI PUO’ GARANTIRE CHE tutte le scatolette etichettate siano effettivamente state prodotte senza uccidere delfini» viene risposto: «No, nessuno lo può fare, nessuno lo può garantire, quando le navi sono nell’oceano non si può sapere cosa fanno». Palmer lamenta che di tutta l’intervista sia stata usata solo un’affermazione che, riportata fuori contesto, comunica erroneamente che i sistemi di certificazione oltre che ingannevoli sfruttino il problema a beneficio loro e delle grandi industrie. Il direttore del Immp ha comunicato a mezzo stampa i dati che mostrano come il programma Dolphin safe abbia contribuito a ridurre la morte accidentale dei delfini del 95% e che insinuare dei dubbi stava provocando un danno a organizzazioni che da anni lavorano per il benessere degli ecosistemi marini, sforzi riconosciuto anche dalle Nazioni Unite.

IL PROLIFERARE DEGLI SCHEMI di certificazione ha reso un mondo, già di per sé contorto, sempre meno trasparente e più difficile da decifrare per il consumatore. Questo vale per la pesca, attività oggettivamente ardua da controllare nell’immensità dell’oceano con i numeri esorbitanti che ha raggiunto a livello industriale. E questo vale anche per la possibile alternativa a cui il regista rivolge la lente della sua telecamera: l’allevamento. Ma niente da fare anche qui: dove potrebbero essere osservate misure di tutela della salute delle specie da consumare come di chi le consuma, la prassi comporta vasche affollate dove i pesci nuotano in circolo nelle loro deiezioni e fra i cadaveri dei loro simili, divorati dal proliferare di parassiti, nutriti a mangimi e antibiotici.

INOLTRE L’ITTICOLTURA E’ RESPONSABILE di gran parte della pesca industriale dei nostri oceani : circa il 20-25% di tutto il pesce catturato in natura (in peso) viene utilizzato per produrre farina e olio di pesce al fine di produrre i mangimi. E anche la certificazione delle aziende ha delle lacune, soprattutto per quanto riguarda la tutela degli animali: l’indagine di Scottish Salmon Watch ha mostrato come aziende certificate da schemi Rspca o Asc praticassero la caccia alle foche che attaccavano gli allevamenti di salmone; la Ong Compassion in World Farming nel 2020 ha analizzato le certificazioni Msc, Friend of the sea, Asc, Bbn, e Ggn mostrando dove non sono adottati gli standard di benessere per i pesci (per saperne di più https://www.ciwf.it/campagne/pesci/il-vero-significato-delle-etichette-del-pesce/).

QUALCOSA SI E’ TUTTAVIA MOSSO e recentemente alcuni dei sistemi di certificazione hanno migliorato i loro requisiti di benessere. Vero è, e questo anche secondo il parere di organizzazioni per la tutela degli animali, che non è stata data sufficiente voce al mondo dell’itticoltura, laddove mostri sforzi di miglioramento ed esempi virtuosi. Altre accuse mosse al documentario sono quelle di aver utilizzato dati e statistiche in maniera poco rigorosa: l’errore più segnalato, l’aver utilizzato una previsione, quella fissata al 2048 per l’esaurimento delle scorte di pesce negli oceani, successivamente smentita dallo stesso ricercatore che aveva eseguito il calcolo. Il biologo marino Robert Callum, intervistato nel film, ha replicato a queste critiche puntualizzando che, indipendentemente dalla precisione di una data, ciò che importa è mostrare che si sta andando nella direzione sbagliata e che il danno è già enorme.

SEASPIRACY E’ NATO, COSTRUITO e rifinito per scioccare. E’ un lavoro ispirato dalla sensibilità, sostenuto dalla passione, realizzato con caparbietà. E’ frutto di una visione volutamente di parte, quando essere di parte non significa alterare la realtà, ma decidere come interpretarla . Il messaggio è radicale: non esiste al momento una pesca sostenibile, se si vuole tutelare gli oceani, e quindi noi stessi, bisogna ridurre drasticamente o eliminare il consumo di pesce. Un’azione che non convince molti. Ma esiste la sostenibilità quando il sistema è insostenibile alla radice? Questa è la profonda domanda che il film pone e la risposta dipende dal proprio e personale concetto di sostenibilità, da dove e perché si è disposti a tirare una riga e dire basta. Se ancora pensiamo che la questione non ci riguardi, o che l’impegno individuale non serva, andrebbe ricordato che quando non sarà più necessario un documentario per farcelo vedere, ma il disastro sarà sotto gli occhi di tutti, sarà troppo tardi.