Ho fallito. Lo ha ripetuto spesso Sean Penn nel corso di 60 Minutes al conduttore del programma, Charlie Rose. Sono le prime parole pubbliche dell’attore dopo l’intervista, uscita la scorsa settimana su Rolling Stones  a Joaquín «El Chapo» Guzmán, il boss del narcotraffico messicano arrestato giorni fa, al momento del loro incontro ancora latitante.

La fotografia scelta per illustrarla mostrava lui, Penn, la star americana stringere la mano a «El Chapo» dopo una lunga conversazione: diecimila battute circa di parole scambiate con l’uomo più ricercato del mondo. Reazioni indignate, critiche feroci, l’immediata azione (Penn è stato messo sotto inchiesta) delle autorità messicane che certo non ne uscivano benissimo dalla vicenda.

Ma come, mentre loro lo cercavano da mesi con imponente caccia all’uomo, Penn riusciva ad arrivare indisturbato al suo nascondiglio? Inoltre l’intervista era il risultato di un incontro di sette ore seguito da scambi via e mail criptata e ponti telefonici.

Tono molto personale, digressioni con cui a un certo punto paragona El Chapo a Tony Montana/Al Pacino in Scarface di Brian De Palma, il testo di Penn rimanda abbastanza esplicitamente alla tradizione di gonzo giornalismo e ha molte più sfaccettature di quello che è stato sottolineato.

Strumentalizzazione mediatica? Certamente ma non solo.

«L’intervista non è riuscita a centrare l’obbiettivo per cui era stata pensata, ovvero produrre una riflessione sulla guerra alla droga» ha detto Penn. E ha aggiunto: «Il clamore che si è scatenato intorno a questo articolo ha completamente rimosso il suo scopo originario. Quello che mi interessava veramente era parlare della guerra alla droga, di cosa significa, della sua importanza. Invece non se ne è fatto neppure un accenno, l’incontro con Guzman è diventato il centro di ogni discussione. Questo vuol dire che l’articolo era sbagliato».

Penn e il boss dei narcos messicani “El Chapo”

Alla domanda di Rose, se pensa di essere stato strumentalizzato dalle autorità messicane, Penn ha risposto seccamente: «Sì» . I messicani infatti hanno lasciato intendere che Penn è stato di grande aiuto per arrivare al «Chapo».

Replica dell’attore: «Sulla visita che io e i miei colleghi abbiamo fatto a Guzman è stata costruita una mitologia. Dire che sono stato essenziale per la sua cattura è assurdo. Noi lo abbiamo visto molte settimane prima, il 2 ottobre e in un posto lontano da dove poi lo hanno arrestato».

Non è questione di paura, perché lui non ne ha – «non temo per la mia vita» ha detto. Ma, appunto, di priorità. «Il governo messicano ha cavalcato la cosa per coprire la sua umiliazione Come giustificare infatti agli occhi del mondo il fatto che mentre loro continuavano a cercarlo invano persino io sono riuscito a trovare Guzman?».

Il vero rimpianto di Penn però è che alla fine tutto questo non è servito a nulla. L’effetto provocato dall’intervista ha completamente oscurato il cuore della questione: la guerra alla droga.

«Mettiamo tutta la nostra energia, la nostra concentrazione, i nostri miliardi di dollari su un’cattivo ragazo’, e che cosa accade? Il giorno dopo ci sarà un altro morto e un altro ancora nello stesso modo».

«Proviamo a guardare il problema da una prospettiva più ampia. Tutti noi vogliamo la stessa cosa, che il dramma della droga finisca. Siamo consumatori, che siate d’accordo o no con Sean Penn questo significa una forma di complicità. E invece quanto tempo abbiamo dedicato dalla scorsa settimana a parlare di questo? A essere generosi forse l’%».