L’attore con la t-shirt nera, l’aspetto molto stropicciato; il narcrotrafficante tirato a lucido, jeans neri con la piega, la camicia di seta con disegni azzurri. Due giorni dopo l’apparizione su Rolling Stone dell’intervista realizzata da Sean Penn a Joaquin Guzman Loera detto El Chapo (il piccoletto), la foto dei due, rilasciata insieme a un paio di minuti in video della loro conversazione, evoca reazioni che oscillano tra l’incredulità, lo scherno (spesso riservato alle uscite giornalistiche di Penn) e l’indignazione provocata dalla celebre foto di Jane Fonda sul carroarmato nordvietnamita, nel 1972.

Dopo Hanoi Jane, Narco Sean.

«Grottesca», l’ha definita il candidato presidenziale Marco Rubio, ma nel pieno diritto del primo emendamento. L’intervista nella giungla – un incontro di sette ore, seguite da scambi via e mail criptata e ponti telefonici – non è il primo degli exploit giornalistici di Penn, che anni fa ha intervistato Hugo Chavez e Raul Castro, prodotto un documentario su Haiti dopo il terremoto e scritto lunghi articoli e lettere aperte molto critici sull’occupazione americana in Iraq.

Ed è chiaro, dal tono della sua scrittura – che include digressioni personali e detour (a un certo punto, nel mezzo della conversazione, paragona il suo interlocutore a Tony Montana/Al Pacino, nello Scarface di Brian De Palma) che l’attore vede i suoi pezzi nella tradizione del personalissimo gonzo-giornalismo di Hunter Thompson, una delle grandi firme di «Rolling Stone».

Figlio dell’attore blacklisted Leo Penn, d’altra parte Sean ha sempre affiancato la sua carriera di attore a una forma di attivismo politico più obliqua, risque’, di quella adottata dall’establishment liberal hollywoodiano. A costo di rendersi ridicolo o come, in questo caso, esporsi alla possibilità di finire sotto inchiesta – anche se per ora sembra piuttosto che gli agenti dell’antinarcotici debbano dirgli grazie; specialmente se è vero che a El Chapo sono arrivati seguendo le loro comunicazioni, iniziate l’ottobre scorso.

Con la sua storia di reportage alternativo il bisettimanale di Jann Wenner era l’interlocutore naturale per Penn, interessato alla storia di Guzman Loera dopo aver letto i twitter di Kate del Castillo, quarantaduenne attrice messicana, nota per aver interpretato una boss della droga nella popolare soap La Reina del Sur, che aveva diffuso messaggi di sostegno per il narcotrafficante e l’invito a mettersi sulla buona via: «Perché non darsi invece al traffico d’amore? Provvedere cure per gli ammalati, cibo per i bambini homeless, alcol per la case di riposo che non permettono agli anziani di fare ciò che vogliono» diceva il tweet.

Lui le aveva risposto mandandole dei fiori ed erano entrati in contatto dopo la sua cattura, nel 2014. Era a Kate che El Chapo (pare contattato da diversi produttori per i diritti di un biopic) aveva affidato di trattare il suo futuro a Hollywood, il grande film sulla sua vita e le sue gesta.

La conversazione tra Guzman e Penn tocca vari argomenti, tra cui Donald Trump («mi amigo!», ma è ironico) e il Medio Oriente (secondo El Chapo il terrorismo islamico non trae beneficio dal narcotraffico), senza in realtà approfondire nulla. Ma provvede quella che, a tutti gli effetti, sembra essere la prima confessione del boss di Sinaloa: «Fornisco più eroina metanfetamina cocaina e marijuana di chiunque altro sulla terra. Ho una flotta d sottomarini, aerei camion e barche».

Ancora in un’intervista del 1993, si era definito «un semplice agricoltore». La violenza? «Quando è necessario mi difendo, ma non sono io che comincio i problemi».

C’è anche la descrizione della fuga rocambolesca dal carcere in un tunnel costruito grazia all’aiuto di tecniche di ingegneria importate dalla Germania e provvisto di una trirotaia abilitata per una motocicletta a bordo della quale El Chapo ha potuto raggiungere la superficie a parecchi chilometri di distanza dalla prigione di massima sicurezza di Altiplano.