La Palma d’oro unanime della critica francese e internazionale è finora Drive my car, e il film del regista giapponese Ryusuke Hamaguchi (premiato anche all’ultima Berlinale per Wheel of Fortune) è davvero il «colpo di fulmine» per l’invenzione della sua proposta – un viaggio nella vita su una Saab rossa 900 – in un concorso un po’ «congelato», che ha probabilmente sofferto anche l’accumulo dei titoli (a scapito degli stessi film) rimasti fedelmente in attesa dal 2020. E mentre dopo il discorso di Macron sull’obbligo del Green pass anche per andare al ristorante, gli altri eventi culturali previsti dopo il 21 luglio manifestano preoccupazione, nella bolla di Cannes tutto sembra procedere come al solito, quasi che nulla fosse accaduto. Nessun «cluster» ripetono Frémaux e Lescure – pure se qualche dubbio circola. Si spera che sia così.

IERI è stato il giorno del terzo titolo americano in gara, firmato da Sean Baker, un autore conosciuto a Cannes dove nel 2017 fa aveva portato alla Quinzaine il precedente, e molto bello, The Florida Project (protagonista William Dafoe). Red Rocket ritrova quel suo universo imprevedibile e poeticamente «ai margini» in cui vivono tutte le sue storie, e dalla periferia del Magic Kingdom devastata dalle speculazioni delle banche e dalla perdita dei posti di lavoro, si sposta in un Texas sottoproletario e industriale, tra case scassate e scoloriti sogni di un trumpiano «Make America Great Again» con una commedia tragicomica che guarda (strabicamente) a un certo soft core italiano degli anni Settanta.

Simon Rex ( interprete in tre Scary Movie) è Mickey Saber, quarantenne attore porno caduto in disgrazia dopo una carriera non proprio brillante in California, in cui alle sue performance univa «l’iniziazione» di ragazze alla carriera di attrici «a luci rosse». Per questo è costretto a tornare nel paesello texano, Texas City, da dove era scappato e a chiedere aiuto alla ex- moglie e alla ex-suocera che lo detestano per probabili sofferenze inflitte alla ragazza – anche lei ex porno attrice in passato e poi con problemi di dipendenza. Mickey promette che le manterrà, che pagherà l’affitto, che si occuperà di loro, però non riesce a trovare lavoro – non ha sufficiente curriculum o quando rivela cosa ha fatto negli ultimi 17 anni diventa «sovrastimato» per i lavori che gli propongono.
FINISCE così a spacciare erba per la gang famigliare e matriarcale del posto – a capo c’è la carismatica madre, Leondria con lei la durissima figlia rapper che lo disprezza per quello che rappresenta, a cominciare dallo sfruttamento delle ragazze – «Perché hai preso tu i premi se erano loro a prendertelo in bocca?» gli chiede disgustata.

Tutto cambia per lui quando incontra Strawberry, giovanissima cameriera in un locale di donut – Donuts Hole – in cui vede un magnifico potenziale porno (è la luminosa Suzanna Son). Anche lei vive nel desiderio di andarsene al più presto e di celebrità, e all’improvviso Mickey ricomincia a sognare.

Come già in The Florida Project – e prima ancora in Tangerine – il paesaggio nei film di Baker è uno dei protagonisti, racconto «profondo» di un’America – in certi dettagli si avvicina a quello dei film di Minervini, Leondria l’aveva notata proprio in What You Gonna Do When the World’s on Fire? – marginale, eppure fortemente presente nell’immagine del Paese, quelle sue zone periferiche che sembrano essere escluse da tutto, in cui dibattiti politici (ci sono quelli delle presidenziali mischiate negli anni) appaiono come un rumore di sottofondo della tv e i voti a figure come Trump sono però assicurati. In una intervista a «Film Comment» Baker diceva: «Sono interessato a conoscere meglio quelle situazioni legate a un’economia sotterranea alla quale sono costretti tanti americani oggi. Credo che il pubblico sia interessato alla diversità anche se Hollywood non ci crede. Penso invece che ci siano temi universali che riguardano ogni persona».

E questa «diversità» è un po’ quella dei suoi personaggi di Red Rocket, malmessi, disperati, a cominciare dal protagonista, gradasso a sprezzo del ridicolo – nessuno crede alla sua fama, per gli altri è un poveraccio uguale a loro – col bisogno di sentirsi «importanti», vantando un passato nell’esercito come il vicino di casa o i muscoli come uno dei figli della gang, e però ancora con un senso di «comunità» che sfugge invece a Mickey troppo concentrato su di sé, egotico, narcisista, pronto a sfruttare quella nuova e ingenua (?) Lolita – che colleziona like sui social nella sua stanzetta rosa.

Di quel sogno americano (distorto) Mickey è in qualche modo attore, pronto a approfittare di tutti e a sua volta «sfruttato», col corpo segnato dalle pilloline blu per le erezioni sul set.

BAKER non giudica, i suoi film sono liberi, non ci sono «eroi» ma solo persone sui «bordi» appunto, che possono «trafficare» con piccole cose per sopravvivere inseguendo un successo che è la loro dannazione. Questo attore un po’ «trumpiano», incapace di empatia se non strumentalmente ai suoi disegni restituisce una cartografia di una realtà imposta in questi anni in America, variazione del capitalismo su scala ridotta. Che affiora con precisione e con umorismo, empaticamente nella scala di un cinema che sa conservare la sua indipendenza, e il gusto di una messinscena senza pregiudizi.