Poeta ritenuto da molti il maggiore fra i viventi, critico e traduttore formidabile, con all’attivo dodici raccolte di poesia, tre di saggi e interventi, traduzioni dall’Old English (Beowulf), dal greco di Sofocle, da Virgilio e dal gaelico, Seamus Heaney, morto ieri a 74 anni, era molto legato all’Italia: basti pensare alla crescente presenza di Dante nella sua opera. Da traduttore, così come da poeta tradotto, conosceva bene i passaggi e i duri attraversamenti di un’arte scontrosa. Lo si era visto nel maggio scorso, durante un incontro festoso con i suoi traduttori presso la Casa delle Letterature di Roma, dove aveva offerto un’ennesima prova di capacità trasformativa tirando fuori ex abrupto una variante orale per un breve testo già dato alle stampe. E regalando poi con la sua voce ai presenti un’intensissima scelta antologica dove spiccavano le vette di più di quarant’anni di poesia: Exposure, The Peninsula, Oysters…
Nel 1995, con il Nobel, i lettori italiani si trovarono a fare improvvisamente conoscenza con un’opera tanto varia quanto intimamente compatta, intessuta di tensioni sotterranee e potenti, con un’impronta fortemente individuale, radicata nel senso dei luoghi e nei lampeggiamenti biografici di un’infanzia vissuta nell’Irlanda rurale; ma anche pronta a smemorarsi dell’io da cui pure era scaturita, a travalicare le frontiere del dato oggettivo e della narrazione per raggiungere una trascendenza tutta umana, consacrata alle cose così come sono, «fondate sulla propria forma e basta», qualcosa di desiderato come «verità»; una necessità forse oggi abbattuta a forza di disincanto ma che segna l’appartenenza di Heaney a una genealogia di scrittori che pur se i tempi erano fuori dai cardini, o forse proprio per questo, non hanno temuto di cercare, intercettare, sondare, far risuonare, provocare la poesia come un «fatto» dotato di forza e realtà bastanti da «autorizzare se stesso» al di là delle giustificazioni contingenti come del tributo da pagare agli idoli dell’epoca. Ma non si tratta degli ultimi fuochi di un romanticismo di ritorno, per quanto Heaney nei suoi saggi non trascurasse di discutere quest’opzione. Quella volontà si intende tesa verso una chiarificazione della vita, o almeno, per dirlo con Robert Frost, «una stasi momentanea contro la confusione».
Anche sul piano della consapevolezza critica, la tensione nasce tra il suono – «l’ascendente della poesia sul nostro orecchio profondo» – e la conoscenza intrecciata a una finalità etico-pratica. Del resto, scrive l’Auden che Heaney amava citare, «Che cosa vuole il canto? Essere confuso e felice, / o più di tutto conoscere la vita?». Nello spazio creato da questa tensione scatta lo sfrigolio elettrico della poesia, con un’assolutezza che pur non soffocando il dubbio di cedere a un bisogno soltanto estetico è l’altra faccia di quel credere/credito in cui sta una responsabilità etica mai data per assodata, che riposa prima di tutto nella «fiamma affermativa» di una bellezza nata dal lavoro, di una lingua che risplenda proprio per la sua usura, e si plasmi sui dettagli più domestici della realtà come fosse un oggetto da rigirare in bocca o da maneggiare.
Che lungo viaggio dagli esordi delle prime poesie in rivista firmate significativamente Incertus, e dalle prime raccolte in cui l’immersione terrestre nel paesaggio irlandese già preannunciava i futuri capolavori: in Reliquia di memoria (da Una porta sul buio, del ’69) «L’acqua del lago / può pietrificare il legno: / vecchi remi e pali / con gli anni / induriscono la vena, / imprigionano spettri / di linfa e stagione». Basta poco a cogliere il seme del futuro e a proiettarsi con la mente verso gli emblemi struggenti e controversi dell’Uomo di Tollund, in North (1975), dedicato alle antiche mummie ritrovate nelle torbiere, dove una visione nettissima si modella in una lingua di melma e di stoppa.
È il viaggio da un’incertezza in cerca di fondamenti a un credere sempre più saldo, anche se combattuto, soggetto a riflussi e ritorni indietro secondo quell’interrogazione continua sulla propria identità e sul senso della propria vocazione a cui Heaney non mancò mai di essere fedele. Come in quel manifesto giustamente celebre che è Exposure, dal titolo aperto a tutti i significati possibili, compreso quello di una dolorosa «esposizione mediatica». Perché la poesia non si impone più, si espone. Perciò l’esilio interno di Heaney è una perpetua allerta, è un farsi antenna di ricezione in cerca di punti di incrocio fra esperienza personale rivissuta e il rumore del tempo, creando voci come alter ego contrastanti, proprio per entrare in dialogo. Ecco, con un’urgenza che sfocia nel volontarismo, l’ombra di Joyce nella purgatoriale Station Island: «Essenziale è scrivere / per la gioia di farlo […]Lascia che altri si coprano col saio e le ceneri. / Lasciati andare, buttati, dimentica. / Hai ascoltato abbastanza. Ora suona la tua nota».
Il dialogo interiore diventa psicomachia con ombre di maestri o cari scomparsi. Quel dibattito anima in Heaney anche i viaggi nell’Ade in cui il mito classico traspare dietro l’infittirsi delle occasioni personali, senza coprirle: come in The Underground, con un Apollo che insegue la sua Dafne in metropolitana per divenire un rassegnato Orfeo. La poesia è pur sempre «il tributo pagato / da ciò verso cui siamo stati sinceri». Con una forza di volontà discesa direttamente dai classici, la poesia come riparazione esprime per Heaney un’esigenza di ordine che vede nel poeta il veicolo dell’armonia del mondo; esigenza sociale, certo, che «resta una promessa più che un obbligo», e non ci offre «la mappa finale di una realtà migliore ma ne improvvisa uno schizzo ispirato».