Europa

«Se vince Merkel perde l’Europa»

«Se vince Merkel perde l’Europa» – Reuters

Intervista al filosofo Julian Nida-Rümelin I democristiani incassano i risultati delle controverse riforme di Schröder. Ma il loro modo di imporre l’«austerity» sta distruggendo sia l’euro che la democrazia. Per l’intellettuale vicino alla Spd lo spread è la «causa» della crisi, non l’effetto come sostengono la cancelliera e la trojka: «Il problema non sono gli alti debiti pubblici ma gli alti costi per finanziarli»

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 18 settembre 2013
Jacopo RosatelliMONACO DI BAVIERA

«Una svolta per l’Europa. Contro una democrazia di facciata»: questo il titolo dell’articolo apparso il 4 agosto 2012 sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) da cui nacque un intenso dibattito fra gli intellettuali tedeschi sul futuro dell’Ue. Un intervento concepito «per offrire una risposta europeista alla crisi dell’Unione», all’insegna dell’integrazione e della democratizzazione. A poco più di un anno di distanza, nell’imminenza delle elezioni di domenica prossima, abbiamo incontrato Julian Nida-Rümelin, co-autore di quell’articolo scritto a sei mani con Jürgen Habermas e l’economista Peter Bofinger. Ordinario di Filosofia e teoria politica all’Università Ludwig-Maximilian di Monaco, il 58enne Nida-Rümelin è stato presidente della Società tedesca di filosofia e ministro di stato (Staatsminister) della cultura nel governo di Gerhard Schröder. Attualmente è membro della direzione del Partito socialdemocratico (Spd).

Professore, nell’articolo della Faz criticavate la politica di Angela Merkel e suggerivate alla Spd al di alzare la voce contro i continui rattoppi nella crisi europea – trattato dopo trattato – che non riescono a frenare né l’aumento dei debiti né il diffondersi dell’euroscetticismo. Un anno dopo, che bilancio può fare?

Il mio bilancio è negativo. Sull’Europa, la Spd si è sentita in obbligo di votare sempre con il governo, nonostante le critiche che ha sempre rivolto a Merkel. Io penso che avrebbe dovuto formulare la propria alternativa in modo più chiaro: se nel Bundestag avesse votato contro i cosiddetti «fondi salva-stati» e «pacchetti di aiuti», si sarebbe aperto un vero dibattito politico e adesso l’Europa sarebbe un tema della campagna elettorale. Detto ciò, devo riconoscere che la Spd si è trovata in una situazione difficile: quelle votazioni richiedevano alcune volte la maggioranza dei 2/3, e tutta Europa avrebbe potuto accusare i socialdemocratici tedeschi, se avessero votato no, di essere egoisti e irresponsabili.

In cosa consisteva, secondo lei, una linea alternativa più chiara?

Si doveva insistere sul fatto che la crisi fiscale non nasce dai debiti pubblici, ma dall’alto costo del loro finanziamento: questo è ciò che ha portato alcuni paesi sull’orlo della bancarotta. E tutto ciò è stato possibile per la mancanza di una politica fiscale comune. Bisognava anche evidenziare che il nostro ministro delle finanze Wolfgang Schäuble non dice la verità quando afferma che il contribuente tedesco finora ha perso soltanto un miliardo nell’operazione di «salvataggio»: non è vero, nessuno può credere che i crediti alla Grecia verranno restituiti. Oltre all’economia, poi, c’è anche un altro aspetto fondamentale.

Quale?

Stanno venendo meno le basi culturali dell’Ue. Dalla seconda guerra mondiale abbiamo imparato che vogliamo percorrere una strada comune, fatta di cooperazione e solidarietà: la precondizione è che esista mutuo riconoscimento e rispetto fra diversi. E anche su questo si deve insistere molto di più, combattendo risentimento e pregiudizi che si diffondono in tutto il continente. In Germania cresce una mentalità isolazionistica e ci sono giornali scandalistici che spargono falsità sul fatto che nel Sud Europa la gente lavori poco, quando tutte le statistiche mostrano esattamente il contrario: qua in Baviera non si trova un ufficio aperto il venerdì pomeriggio…

Invece di questa linea alternativa, si è imposta quella della Merkel: perché?

Essenzialmente perché l’economia va molto bene, e di questo i democristiani approfitteranno nelle urne. Pur non potendo intestarsi alcun merito, perché le cause dell’ottimo stato di salute della nostra economia non hanno a che fare con loro.

Quali sono, a suo giudizio, le cause della buona situazione economica?

Forse non le piacerà quello che sto per dire, ma in primo luogo c’è sicuramente la politica di Schröder: è dal gennaio 2005 che la disoccupazione ha cominciato a calare. Poi, la moderazione salariale, per la quale si deve riconoscere lo sforzo fatto dai sindacati di legare i compensi alla produttività. E in terzo luogo la reazione molto intelligente dei ministri socialdemocratici della grosse Koalition durante la crisi finanziaria. Per questo la Germania ora sta così bene e di fatto trae vantaggio dalla crisi, grazie ai bassissimi tassi di interesse sul proprio debito. Di questa situazione, come detto, si avvantaggerà Merkel, perché si è diffusa la convinzione errata che stia difendendo bene gli interessi tedeschi sul lungo periodo. Ma non è così: come può essere nell’interesse della Germania agire in modo da minare le basi dell’integrazione europea?

Lei difende la cosiddetta Agenda 2010 di Schröder, ma non può negare che è aumentata la diseguaglianza fra poveri e ricchi, si è diffuso il lavoro precario, ci sono 7,5 milioni di persone che hanno i cosiddetti mini-jobs…

Non contesto quello che lei dice. Io non sono mai stato un fanatico sostenitore delle riforme di Schröder, pur non essendo stato nemmeno tra i suoi critici più accaniti: riconosco che ci siano stati errori nell’avere sottovalutato alcuni suoi effetti, come quelli a cui lei faceva riferimento. Si sarebbe dovuto, ad esempio, introdurre da subito il salario minimo per legge. Nonostante ciò, ritengo che il contesto nel quale tali misure sono state adottate imponesse di agire: una decina d’anni dopo la riunificazione, la Germania aveva un tasso di disoccupazione altissimo e la crescita era stagnante. Era una situazione che minacciava, in prospettiva, la tenuta dello stato sociale.

Tornando alla politica europea, vorrei chiederle di controbattere alle tesi che il sociologo Wolfgang Streeck ha presentato nel suo ultimo libro («Tempo guadagnato», Feltrinelli), e che stanno suscitando un intenso dibattito: perché è sbagliato un ritorno agli stati nazionali?

Il ritorno agli stati nazionali degli anni Settanta, e agli strumenti che avevano a disposizione, a partire dal cambio flessibile, è una pericolosa illusione. La globalizzazione non è un processo che ammetta di essere frenato in quel modo. Quella di Streeck è una posizione che trova un’eco anche nella Linke, e che secondo me si fonda su una concezione di internazionalismo diversa da quella che difendo io: l’internazionalismo è semplice «amicizia fra i popoli» oppure è vero cosmopolitismo?

Cosa occorre fare, quindi, a suo giudizio?

Democratizzare l’Europa, costruire uno spazio politico e un’opinione pubblica europei: si dovrebbe celebrare un referendum europeo che rappresenti quell’atto collettivo di legittimazione dell’Ue che fino ad ora non c’è stato. Solo dentro questa nuova dimensione continentale democratica è possibile imbrigliare il capitalismo, in particolare le banche: gli stati nazionali non sono più in grado di farlo, i grandi blocchi come l’Europa o gli Stati Uniti invece sì. Si pensi alla tassa sulle transazioni finanziarie: funziona solo se la si introduce a livello internazionale.

Deve riconoscere, però, che qualche strumento gli stati nazionali ce l’hanno ancora. Penso alla sentenza della Corte costituzionale portoghese che ha bocciato lo scorso aprile molte «riforme» imposte dalla troika, e anche alla stessa Corte tedesca…

Sì, ma non è la strada giusta. La nostra Corte, quando critica la politica europea del governo, si richiama alla sovranità nazionale: secondo me è un rischio. La Costituzione tedesca non dice che è vietata la cessione di sovranità alla Ue: quello che è vietato è la perdita di democrazia. Se noi creiamo le condizioni perché in Europa si possa produrre la stessa espressione della volontà democratica che attualmente vige negli stati, allora nulla impedisce la cessione di sovranità. È ovvio che una condizione perché gli stati cedano davvero la propria sovranità è che tutti rispettino una disciplina fiscale: se ci sono gli eurobond, se c’è una garanzia comune dei debiti, allora è giusto che ciascuno stato non si indebiti alle spese degli altri.

Nel dibattito politico tedesco si vive un paradosso: i democristiani, in testa il ministro Schäuble, accusano la Spd e i Verdi di volere egemonizzare l’Europa, perché invocano l’assunzione di responsabilità della Repubblica federale nei confronti dei paesi in crisi… A noi «meridionali» appare, piuttosto, che sia il governo conservatore a dettare la propria volontà…

Quella di Schäuble è pura polemica da campagna elettorale. La Spd ha sempre detto che occorre un piano Marshall per il Sud Europa, che sia implementato da ciascun paese: questa è solidarietà, non egemonia o paternalismo. Quello che è accaduto invece è che la Germania ha dettato con alcuni altri stati come la Finlandia le condizioni degli aiuti – anche se sarebbe più corretto dire che le è stato permesso di farlo, perché in questo ambito a livello europeo vige il principio dell’unanimità. Una simile situazione sarebbe stata impossibile se decisioni di questo genere fossero state assunte da istituzioni europee democratiche, di fronte ad un’opinione pubblica europea, nel nome di interessi europei.

Si può già dire che le elezioni tedesche siano state un’occasione persa per far crescere un dibattito sull’Europa con i temi giusti?

Sì, le elezioni tedesche sono un’occasione persa. Attualmente noi abbiamo opinioni pubbliche nazionali che si cimentano sulle questioni europee. Deve nascere un’opinione pubblica europea: nel momento in cui nasceranno veri attori politici europei, accadrà automaticamente.

Ci restano allora solo le prossime elezioni europee?

Onestamente, non so se saranno già quelle decisive: in molti paesi sono sottovalutate. Ma certamente, se si presentassero a livello continentale due coalizioni alternative – conservatori contro progressisti – ciascuna con un candidato presidente della commissione, si farebbero enormi passi avanti. Non si può tollerare oltre che la commissione sia fatta com’è ora: tutti i Paesi e quasi tutti i partiti rappresentati, senza uno straccio di programma politico. La commissione, che possiamo considerare il potere esecutivo della Ue, contravviene al principio fondamentale della democrazia: poter cambiare chi mi governa se non sono soddisfatto. Ma come faccio a farlo se chi mi governa non ha né un profilo politico, né un programma? Comunque vada nel 2014, sicuramente prima o poi dovremo confrontarci seriamente sul futuro della Ue, perché i problemi non sono risolti. E il confronto può essere tra le uniche due strategie in sé coerenti: un ritorno agli stati-nazione, alle monete nazionali, con l’Europa solo come spazio di libero commercio oppure il mantenimento dell’euro, costruzione di istituzioni democratiche, e una politica sociale e fiscale comune. Tertium non datur. La strategia della Merkel, che è all’insegna di un’impossibile via di mezzo, è in sé contraddittoria e quindi, sul lungo periodo, non può funzionare.

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