Dire o non dire qualcosa su Sanremo? Confessare o no di averne guardato e ascoltato alcuni passaggi? Il simpatico Padre “poco Santo”, per sua ammissione, che è a capo della Chiesa cattolica ci ha detto che abbiamo tutti “diritto” al perdono. Questo consola e forse fa riflettere di più sulla responsabilità grave e solitaria del male. Sì, ho visto un po’ Sanremo, e anzi proprio tutta l’ultima serata (cedendo a un certo punto, brevemente, al sonno, non dirò ascoltando chi…).

Come era previsto ha vinto quella che ho vissuto – al di là di tutte le sofisticate e più o meno “fluide” interpretazioni rimbalzate tra social e media – come la messa in musica e in scena di un amore tra maschi. Giovani e brillanti.

E intenzionati a offrire del maschio un’immagine diversa da quella “tradizionale”. Mahmood con camicia e cravatta da sera, ma una lunga stretta gonna: evocata la femminilità che anche un uomo può immaginare di sé, o anche la foggia esotica di altri abbigliamenti maschili? Blanco con quel vaporoso pizzo trasparente.

Hanno contato di più però l’intensità dei gesti e degli sguardi, insieme al palleggiarsi di una bella musica, con parole facili ma efficaci. “Nudo con i brividi. A volte non so esprimermi. E ti vorrei amare, ma sbaglio sempre…”.

“C’è un modo nuovo di essere maschi a Sanremo” aveva già scritto il settimanale L’Essenziale, mettendo in contrapposizione la banda dei cinquantenni, sessantenni e più (Amadeus, Jovannotti, Morandi, Fiorello ecc.) “ingessati negli smoking”, che non resistono all’allusione “da spogliatoio”, e i tanti giovani “vestiti di rosa”.

In parte vero, ma poi si sono tutti ripetutamente intensamente abbracciati e accarezzati, con doviziosa distribuzione di mazzi di fiori a tutte e soprattutto a tutti. Sarà anche la voglia di contatto dopo questi due anni di paure, solitudini e precauzioni, costrizioni infinite.

Già, la pandemia. A parte una rima – “che brutta fine le mascherine, la nostra storia che va a farsi benedire” – di Dargen D’Amico, non ho colto altri riferimenti. Se non qualcuno che speranzoso ha evocato la possibilità di rimettersi sul serio a far musica in pubblico.
Moltissime, come sempre, le canzoni “d’amore”.

Un amore direi – a parte le volizioni passionali di Iva Zanicchi – un po’ più in guardia con se stesso, con meno cedimenti alla possessione? Se mi lasci, prenditi cura di te. Quell’istante mi porterà “una piccola felicità, quella stupida voglia di vivere”. Buone novità dunque dal palco dell’Ariston?

Ma. Il gioco, nel mercato dell’audience e degli interessi dei discografici, della Rai ecc. ecc. si presenta in buona misura come preconfezionato. Se qualche gesto, parola o estetica dei corpi evoca una trasgressione, tutto si rimette in ordine quando la festa finisce con gli abbracci e baci a mamma e papà che evidentemente hanno incoraggiato i loro ragazzi (e ragazze?) a tentare il successo. E dopo i tanti ringraziamenti e ingraziamenti a “zia Mara” (Venier), in prima fila, pronta a rilanciare il tutto e tutti il giorno dopo.

D’altra parte, vorremmo negare il bene degli affetti familiari? Forse questa vittoria di un amore tra maschi può essere una cosa buona se – in un momento di aspri conflitti su che cosa si debba intendere per sesso e genere – ci aiuterà a capire, noi uomini, che il vituperato regime eterosessuale è fatto per tanta parte proprio di amori maschili travisati, rimossi, perseguitati se manifesti.

Ridotti alla fine per lo più all’oscuro piacere del potere condiviso. Chissà: se imparassimo a volerci bene sul serio, apertamente, senza perverse paure e rabbie più o meno inconsce, saremmo anche capaci di amare meglio le donne e la loro libertà?
E tutto il resto del mondo?