Matteo Renzi, bontà sua, ha alzato il telefono. Dopo la sfuriata del ministro Graziano Delrio, che lo aveva accusato di non fare abbastanza per evitare l’inevitabile e di non dare l’impressione di dolersi abbastanza per la scissione prossima ventura, il segretario, giovedì sera, ha chiamato il governatore della Puglia Michele Emiliano, lo ha esortato a ripensarci, ha garantito che il congresso sarà partecipatissimo e che il partito ha bisogno di tutti. Gli stessi concetti aveva già consegnato a un’intervista sul Corriere della Sera.

Di concreto zero assoluto, ma si sa che quel che conta è il pensiero, e infatti la grancassa renziana martella poi per tutta la giornata di ieri sull’importanza dei suddetti «gesti». Per la verità il governatore della Puglia, nell’amichevole colloquio da lui stesso notificato tramite Facebook, aveva insistito sulla necessità di spostare le primarie a settembre, condizione essenziale per evitare la catastrofe. Ma su questo particolare il coro glissa. Questione secondaria, quel che importa è «il gesto».

 

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Il quale, purtroppo, viene però vanificato da un fuorionda galeotto nel quale proprio il ministro Delrio appalesa con il dem Michele Meta, credendosi in privato, la stessa irritazione che non aveva esitato a manifestare la sera prima al capo. E aggiunge di peggio: «Non ha fatto neanche una telefonata. Poi ci sono anche dentro i renziani, pensano che così ci saranno più posti da distribuire. Non capiscono che sarà come quando cede la diga della California e poi l’acqua non la governi più».

Stavolta è il turno di Renzi di imbufalirsi. Sbraita con l’amico/nemico: «Adesso vai e rimedi». Essendo la dignità una dote che scarseggia Delrio lo fa davvero. Si presenta di fronte alle telecamere e scandisce il contrario esatto di quel che, come tutti ormai sanno, pensa: «Renzi ha fatto tutto il possibile, ha fatto più di una telefonata, ha fatto quanto era nelle sue responsabilità». Toppa inutile, genuflessione imbarazzante per tutti e per il ministro più che per chiunque altro. Il danno d’immagine è di quelli irrimediabili.

La linea di condotta viene decisa dalla squadra di governo in una lunga riunione in coda al consiglio dei ministri, presenti un po’ tutti, da Franceschini a Delrio, da Orlando a Minniti, da De Vincenti a Pinotti con rapida comparsata persino di Maria Elena Boschi e dello stesso Gentiloni. Bisognerà insistere sul fatto che è stato fatto tutto il possibile, concesso il concedibile. Del resto non stanno lì a testimoniarlo i «gesti»? Non solo quelli del capo, ma l’intervista di Franceschini che assicura lo slittamento delle elezioni, l’accorata lettera di Fassino in risposta a quella di Bersani: «Il tuo invito a fermarsi vale anche per chi pensa che la scissione sia inevitabile. Nulla è inevitabile».

Lo stato maggiore renziano in realtà pensa invece che il divorzio sia proprio inevitabile. Lavora però per trattenere almeno i due governatori, Emiliano e il presidente della Toscana Enrico Rossi, la cui permanenza nel partito depotenzierebbe di certo la frattura. Ieri la riconquista dei governatori veniva data dai renziani per molto probabile, ma in questi casi le esigenze della propaganda hanno sempre la meglio su quelle della verità, che si rivelerà soltanto oggi. Lo squadrone dei pontieri è più ambizioso. Spera che, se Emiliano e Rossi si convinceranno a restare (ipotesi per la verità improbabile ma non impossibile), anche Bersani e il grosso dei ribelli potrebbero frenare, senza tornare del tutto sui loro passi ma scegliendo l’attesa e il rinvio.

Però fermare la minoranza bersaniana è ormai quasi impossibile e certo non solo perché dall’esterno D’Alema soffia sul fuoco, stavolta cogliendo l’occasione del voto del Pd contro la pubblicazione dei nomi dei creditori d’oro di Mps: «Un voto del partito di cui ho in tasca la tessera, e lo dico con vergogna». Ci vorrebbe un impegno preciso del segretario nel discorso all’Assemblea di domenica, ripetono i quasi-scissi. «Il tempo degli appelli e delle petizioni d’affetto è finito», dichiara per tutti Miguel Gotor cestinando così in un colpo solo tutti i decantati «gesti» «Servono piuttosto un’assunzione di responsabilità politica e scelte chiare. Il dovere dell’iniziativa spetta anzitutto al segretario», prosegue il senatore bersaniano. Ma quell’impegno, cioè lo spostamento delle primarie a dopo le amministrative, non arriverà. Perché per Renzi, che prevede l’ennesima batosta, sarebbe un mezzo suicidio e l’uomo non è di quelli che sappiano mettere i proprio interessi in secondo piano. In nessun caso.