Forse anche il lato oscuro della personalità di Emily Dickinson, una delle poetesse più amate di tutti i tempi, ha contribuito a farne un mito prima ancora della sua morte. Mai misurata, fisicamente gracile e di salute cagionevole, aveva fronteggiato i suoi demoni interiori con astuzie bislacche quando non puramente malvage: una volta, sfidando l’autorità paterna, si era rifiutata di andare in chiesa, e in un accesso di rabbia aveva raccolto «quattro gattini superflui» nell’incavo di una paletta del camino, li aveva fatti scivolare in un voluminoso barattolo di vetro e li aveva annegati nella salamoia dei cetriolini conservati in cantina. «Aunt Emily», ci racconta la nipote Martha Dickinson Bianchi, era anche così: ordinaria solo per convenienza, falsamente invisibile, un po’ subdola e imperscrutabile nel suo «sfarfallio» quando si muoveva «come un’ombra sul versante della collina» sotto la luce obliqua dei cieli immensi del Massachusetts. Tutt’altro che vergine glaciale, reclusa nella sua stanza d’alabastro per cocenti delusioni d’amore. Né assuefatta al silenzio e all’immobilità di una casa-prigione.

Proprio alla vita di Emily Dickinson rimanda Eileen (Mondadori, convincente traduzione di Gioia Guerzoni, pp. 224, euro 19,00), il romanzo che Ottessa Moshfegh ha ambientato negli anni sessanta del Novecento. La protagonista è cresciuta in una cittadina del New England tanto ordinaria da essere nominata «X-ville», con le sue strade fiancheggiate dagli alberi, le case e i giardini curati con amorevole dedizione e un senso civico che la fa vergognare di essere «così confusa, così malmessa, così sciatta». Eileen Dunlop, nel 1964, può sembrare «una di quelle ragazze che vi aspettereste di vedere sull’autobus in città, immersa in qualche vecchio libro di piante o di geografia preso dalla biblioteca». Niente di speciale: esile, quieta, coscienziosa, una postura rigida e la faccia piena di cicatrici da acne che confondono «qualsiasi dolcezza o follia si nascondesse dietro quell’aspetto freddo e cadaverico da New England».

A quel tempo, cinquant’anni prima rispetto al momento della narrazione, Eileen riconosce di essere «una puritana»: mentre le ragazze mostrano le gambe nude sotto le minigonne, lei porta gonnelloni alle caviglie, giacche abbottonate al collo, niente smalti, né gioielli, a eccezione di un piccolo rubino un tempo appartenuto alla madre, la cui morte è meno destabilizzante di quella del suo amato cane. Ma c’è qualcosa che non quadra nel ritratto che offre di sé al mondo e ben presto, nel romanzo, la sua dissonanza esistenziale viene rivelata: Eileen non legge affatto «libri sui fiori o sull’economia domestica» bensì storie tremende di «omicidi, malattie, morte» o di «terre lontane» sul National Geographic, la rivista sacra che presto sostituisce alla Bibbia.

È ossessionata dal proprio corpo e dalle sue secrezioni – mestruo, sudore, escrementi – dai loro odori che annusa quasi le sia necessario ricordare la materialità del suo essere. A ventiquattro anni Eileen guadagna cinquantasette dollari la settimana come segretaria a Moorehead, un riformatorio per adolescenti maschi da cui, «consumata dal desiderio», sogna di scappare: forse a Boston, dov’era andata una sola volta per vedere un medico, o a New York, che avrebbe raggiunto con la macchina sgangherata del padre alcolista ed ex-poliziotto nel cui vano portaoggetti conserva un topolino morto. Questa, annuncia subito la sua infingarda voce narrante, «è la storia di come sono scomparsa», lasciando alle spalle il tedio di una falsa esistenza di porcellana che comunque, di lì a poco, si sarebbe infranta in mille pezzi.

Quando entra in scena Rebecca, la nuova direttrice pedagogica del penitenziario e femme fatale dalla chioma rosso fuoco, l’aria immobile di X-ville è attraversata da una scossa. Eileen tiene a precisare di non essere lesbica, tuttavia – a differenza delle altre ragazze della sua età che aspirano a un marito e alla casalinghitudine – lei sogna «un’amica vera» che la sappia ascoltare.

Senonché, con la seducente e hitchcockiana Rebecca entrano in scena anche una pistola, qualche menzogna e un morto e, risucchiata nel vortice di avventure imprevedibili e spericolate, Eileen supera il punto di non ritorno e arriva a cogliere il valore di una lezione appresa quasi per caso: «un amico è colui che ti aiuta a nascondere il cadavere». Letteralmente.

Eileen è un «esperimento»: così lo considera Ottessa Moshfegh, che cimentandosi per la prima volta con la misura lunga del romanzo, intraprende un’inflessibile operazione formale. Aderendo al cliché del thriller psicologico, non devia mai da una retrospettiva in prima persona, ma nemmeno cede alla tentazione di piegare il personaggio a una falsa innocenza, spiattellando piuttosto verità fastidiose e importune su Eileen e su ciascuno di noi. Del resto, ha dichiarato Ottessa Moshfegh in numerose interviste che hanno accompagnato l’uscita del libro in America, «volevo capire perché la gente fa cose strane».