Non c’è dubbio, l’Europa trema come se stesse per spaccarsi. Preoccupano soprattutto le minacce che vengono dal naufragio dell’aquis di Schengen – altrimenti detto accordo o trattato ma si chiama con questo strano nome che significa pacchetto di regole sullo spazio comunitario di libera circolazione di beni e persone – che insieme alla moneta unica regge l’intera impalcatura della Ue.

Matteo Renzi, intervistato dall’agenzia Bloomberg qualche giorno fa, ha usato la metafora, un po’ stantia ma sempre efficace, dei 28 paesi membri come l’orchestra che suona sul ponte del Titanic. Ma un’altra visione strategica non sembra averla neanche lui.

Ciò che la Commissione ha studiato per convincere gli stati a rispettare Schengen e quindi a collaborare nei programmi di ricollocamento dei profughi e di controllo delle frontiere, è allora lo spauracchio di disastrose conseguenze economiche. Nella relazione della Commissione c’è infatti un dettagliato quadro dell’impatto che il fallimento di Schengen comporterebbe in termini di costi aggiuntivi per cittadini e imprese, mancati introiti e emorragia di posti di lavoro, un’analisi persino più fosca di quella condotta da France Strategie, think tank che elabora valutazioni per l’Eliseo, all’inizio del mese. Se infatti i francesi stimano in 100 miliardi di euro l’anno il colpo sferrato all’economia europea dall’addio a Schengen, per la Commissione si arriverebbe a 138 miliardi di conto finale per gli stati nella loro totalità.

L’impatto più immediato del ripristino generale delle frontiere nazionali sarebbe, naturalmente, sul traffico delle merci, che – precisa la Commissione – rappresenta attualmente un volume di affari pari a 2.800 miliardi di euro e una massa di 1.700 milioni di tonnellate di beni che si spostano tra le frontiere annualmente. Il ripristino dei controlli doganali interni potrebbe costare tra 5 e 18 miliardi di euro, solo di costi diretti. Autotrasportatori e logistica, secondo le stime Ue, pagherebbero un grosso dazio, probabilmente reagirebbero aumentando i prezzi. Pesanti scelte si prospetterebbero per i lavoratori transfrontalieri, che sono molti anche se meno dell’1% della popolazione dell’area Schengen. L’industria del turismo con il ritorno dei visti subirebbe un colpo pesante, tra i 10 e i 20 miliardi, facendo arretrare il Pil della Ue tra lo 0,07 e lo 0,14 per cento.

Secondo le stime di France Strategie gli scambi commerciali sarebbero decurtati del 10-20 per cento, i beni trasportati vedrebbero rincari del 3 per cento a causa delle tasse doganali e dell’aumento dei costi, mentre i danni al settore turistico sarebbero più limitati. Il centro studi d’Oltralpe si sbilancia a fare previsioni di calo del Pil sia a livello dei 28 (- 0,8) sia per i singoli paesi: alla Germania la fine irrevocabile di Schengen costerebbe 28 miliardi di euro, all’Italia 13 miliardi, alla Spagna 10 miliardi, all’Olanda 6 miliardi e così via.

Ma non solo. Tra i documenti preparatori del vertice della prossima settimana a Bruxelles ce n’è anche uno sul mercato dei capitali che spiega come il settore finanziario sia ormai definitivamente cementato a livello continentale ma come possa svilupparsi grazie a finanziamenti pubblici (costerebbe 200 miliardi l’anno solo la transizione verso un’economia low carbon) e garanzie di stabilità.

Cio che manca invece nei documenti redatti dalla Commissione per i rappresentanti governativi è invece un rapporto sui costi sociali dell’operazione di fili spinati e frontiere chiuse. E l’unico approfondimento è una mappa di Frontex che segnala un traffico di migranti interni alla rotta balcanica: albanesi, macedoni e georgiani, «migranti economici» secondo la dizione per segnalare quelli che l’Europa non vuole, perché questi paesi (Albania, Macedonia e Georgia) pur facendo parte dell’Unione europea non sono all’interno dello spazio Schengen, che come si vede dalla piantina proprio nell’area balcanica ha un evidente «buco» o zona grigia. Esattamente costoro sono quelli che tanto spaventano il governo britannico con il suo welfare state.