La fama di Salman Rushdie ha avuto nel corso del tempo oscillazioni notevoli, scompaginando spesso quella che per Arbasino sarebbe la traiettoria tipica di uno scrittore (giovane promessa, venerato maestro, solito stronzo). Certo, Arbasino parlava dell’Italia e in un tempo diverso dal nostro, ma leggendo un articolo di Emily Gould su Vanity Fair Usa dedicato allo «stato attuale dei Jonathan» (Franzen, Safran Foer, Lethem e gli altri che, pur con nomi diversi, dominavano la scena letteraria americana, e quindi globale, quindici o vent’anni fa), viene da pensare che in parte quella parabola possa valere pure oggi, e fuori dai nostri confini.
Quanto a Rushdie, acclamato maestro già al suo secondo romanzo, I figli della mezzanotte, e poi costretto a una celebrità indesiderata a causa della fatwa lanciata sul suo capo per i Versetti satanici, da anni non suscita nei critici e nel pubblico l’entusiasmo iniziale. Della sua raccolta di saggi, Languages of Truth, uscita la scorsa primavera, Abhrajyoti Chakraborty ha per esempio scritto sul Guardian che «con Rushdie, le intuizioni profonde sono immancabilmente seguite da riflessioni banali, e a volte le stesse intuizioni non sono così acute come lui vorrebbe farci credere».
Ma ecco, di nuovo si parla di Rushdie, e non per un nuovo romanzo o per una controversia politica, ma perché lo scrittore ha annunciato, e subito messo in pratica, la sua intenzione di raggiungere direttamente i lettori attraverso Substack, la piattaforma online nata a San Francisco nel 2017, che – citiamo da Wikipedia – «fornisce l’infrastruttura di pubblicazione, pagamento, analisi e design per la gestione di newsletter gratuite o in abbonamento». Insomma, forzando un po’ la mano, potremmo dire che Salman Rushdie si è dato al self-publishing.
Naturalmente non è così, e a spiegarlo è Rushdie stesso in un podcast con la giornalista del Guardian Shelley Hepworth: l’accordo, proposto da Substack, è passato regolarmente attraverso il potentissimo agente dello scrittore, Andrew Wylie, che mai si lascerebbe sfuggire un cliente così importante. Vero è però che a partire dal primo settembre la piattaforma ospita la newsletter di Rushdie, intitolata Salman’s Sea of Stories (esplicito riferimento a un suo vecchio libro per bambini, Harun e il mare delle storie), con una doppia modalità di accesso: chi si abbona gratis può leggere brevi post dedicati a libri o a film amati dall’autore, mentre chi è disposto a spendere 6 dollari al mese potrà leggere in anteprima a puntate un romanzo breve inedito di Rushdie, The seventh wave, partecipando attivamente con commenti e perfino proposte di variazioni al testo, che lo scrittore – furbo – non esclude di prendere in considerazione.
Troppo presto per capire se l’operazione avrà successo e rilancerà le sorti declinanti di Rushdie. Sicuro invece è che Substack, dopo avere incassato critiche come quelle di Anna Wiener sul New Yorker (secondo cui la caratteristica della piattaforma è «una qualità semi-professionale adatta alle email di massa»), intende affermarsi come uno spazio interessante per giornalisti e scrittori, libero dal blabla dei social network e dai vincoli dell’editoria tradizionale. Riuscendoci, a quanto pare: anche se – scrive saggiamente ancora sul Guardian David Barnett – «c’è da dubitare che i grossi nomi voltino le spalle alle loro solide case editrici», la scuderia Substack si riempie di figure diverse, come lo scrittore israeliano Etgar Keret, il giornalista Glenn Greenwald, l’autore di Batman/DC James Tynion IV. E l’idea che a secoli di distanza da Balzac o da Dickens possa tornare in auge il romanzo a puntate (sia pure via newsletter), è in fondo divertente.