Il 7 febbraio 1947 il Consiglio del Ministri del III governo De Gasperi, (Dc-Psi-Pci-Pri e Partito del Lavoro) votò all’unanimità l’accettazione del Trattato di Pace che chiudeva anche dal lato politico-diplomatico la guerra mondiale scatenata dall’asse nazifascista. Il 10 febbraio il Trattato di Pace venne ufficialmente firmato a Parigi e nella seduta del 31 luglio 1947 il parlamento costituente antifascista, nato insieme alla Repubblica il 2 giugno, lo ratificò.

57 anni dopo, nel 2004, uno dei parlamenti della seconda repubblica, quella non più nata dalla Resistenza ma dalla fine della Guerra Fredda e dalle inchieste giudiziarie, con voto bipartisan istituì in quella data il giorno del ricordo voluto fortemente dalla destra post-fascista e condiviso dalla sinistra di governo per «rompere il silenzio sulla vicenda taciuta delle foibe» secondo la rituale formula delle celebrazioni ufficiali.

Lo scorso 10 febbraio la Presidente della Camera Boldrini e il Sottosegretario alla presidenza del consiglio Del Rio hanno conferito a Paride Mori un’onorificenza «per aver servito la patria» ovvero, nel suo caso, il battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” della repubblica di Salò. Per la cronaca, e anche un po’ per la storia, va annotato che Paride Mori non morì nelle foibe ma il 18 febbraio 1944 in un conflitto con i partigiani.

Le autorità si sono affrettate a dichiarare che «se c’è stato errore il riconoscimento sarà revocato», tuttavia di errori di questa natura il giorno del ricordo ne ha annoverati in questi anni davvero molti altri. Nel 2007 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferì la medaglia come infoibato a Vincenzo Serrentino. Capo della «provincia di Zara» durante la repubblica sociale fu presidente del tribunale speciale fascista in Jugoslavia e responsabile di decine di condanne a morte eseguite contro partigiani e civili. Arrestato e processato dal governo jugoslavo venne condannato a morte da un tribunale il 15 maggio 1947. Sempre tra il 2009 ed il 2011 altri tre italiani accusati di crimini di guerra dal governo di Belgrado furono insigniti dell’onorificenza del 10 febbraio, Giacomo Bergognini, Luigi Cucè e Bruno Luciani, quest’ultimo collaboratore della famigerata Banda Collotti.

Il giorno del ricordo, già contraddittorio nella sua indicazione calendaristica nonché nella sua natura omissiva sui crimini di guerra italiani nei Balcani, si è configurato come una leva contro-narrativa della storia che finisce per rilegittimare il fascismo regime e persino quello repubblichino. Così nell’anno in cui Fini e Violante sono tornati insieme a Trieste, luogo della prima pietra della «storia condivisa», nella stessa città si è cercato di sfiduciare il presidente del consiglio comunale Iztok Furlanic che aveva avuto l’ardire d’indicare quello dei partigiani jugoslavi come l’esercito di Liberazione dal nazifascismo nella regione. Il tutto rafforzato, nel corso degli anni, da fiction e spettacoli teatrali che, utilizzando l’espediente empatico-narrativo in luogo della complessità fattuale della storia, hanno affiancato una nuova retorica istituzionale celebrativo-vittimistica che ha sollevato nel discorso pubblico l’Italia fascista da ogni responsabilità nella seconda guerra mondiale finendo per alimentare fenomeni di autentico revanscismo neofascista.

Il discorso pubblico della memoria di Stato scritta per legge, dunque, sembra approdare alla conclusione che il fine della Storia sia la fine della Storia, impossibilitata a svolgere un compito di conoscenza indispensabile a individuare la direzionalità del tempo presente e a contribuire all’interpretazione dell’età contemporanea e della modernità.

Se questo è il giorno del ricordo la storia del nostro passato ha davanti a sé un sempre più incerto futuro.