Durate la campagna presidenziale, giornalisti e avversari politici s’impegnavano con puntiglio a smontare e a smentire i “fatti” e i “dati” forniti da Donald Trump con le sue mirabolanti mitragliate di tweet, con i suoi comizi-happening e le sue interviste-monologo.

Un fact checking molto facile, tanto clamorosamente evidenti erano le manipolazioni della realtà. Ma perfettamente inutile, se l’intento era quello di convincere gli elettori che, votando Trump, avrebbero eletto un imbroglione.

È successo anzi che Trump si sia eretto, lui, ad alfiere della lotta contro le fake news – già, quelle che a suo dire raccontavano la verità sulle sue panzane -, ed è riuscito con successo a rovesciare la realtà presso una parte decisiva degli elettori, visto l’esito delle presidenziali di novembre. Quelli che Kellyanne Conway, la consigliera per la comunicazione di Trump, definì gli «alternative facts» facevano ridere mezzo mondo ma non quell’elettorato che ha portato il miliardario newyorkese alla Casa bianca. E che continua a sostenerlo, nonostante lo smaccato tradimento delle promesse elettorali, alcune delle quali, le più simboliche, avrebbe dovuto realizzarle nei primi cento giorni della presidenza.

Se Trump non mantiene le promesse non è colpa sua, lui ce la mette tutta, è colpa del Congresso, di Washington, dei democratici e anche dei repubblicani. Questa – secondo le inchieste giornalistiche di questi giorni – è la narrativa che gira senza argini nelle contee che hanno votato con più convinzione Trump.

Oggi che scocca il centesimo giorno della sua presidenza, si osservano commentatori e guru, e naturalmente gli avversari politici, impegnati in un esercizio analogo a quello delle campagna elettorale: ricordare uno per uno gli impegni solenni assunti da Trump per dimostrare che neppure uno è stato rispettato. Alla lista delle inadempienze, s’associano poi i veri e propri giri di valzer, specie nella politica internazionale e militare, che sembrano segnare il rovesciamento del principale impegno assunto del nuovo presidente e condensato nello slogan «America First».

I più benevoli nei suoi confronti – più numerosi dalle nostre parti, per la verità, che non nella stessa America – salutano con soddisfazione quella che non considerano un contraddirsi ma la naturale evoluzione di un candidato presidenziale a presidente effettivo, il passaggio dunque dalla retorica dei comizi al pragmatismo del comandante in capo che sa flettere i muscoli quando ci vuole.

Impotente di fronte alla dura realtà della politica washingtoniana, che l’avviluppa nei suoi giochi – «la politica», dice lui con disprezzo – e alle sfide dell’economia che non riparte – non s’aspettava che fosse così impegnativo fare il presidente, ha confessato alla Reuters – Trump opera la classica manovra di distrazione verso i nemici esterni, esibisce la forza, minaccia l’ira di dio, per compensare la sequenza di flop “domestici”.

Il solito film visto in passato. Eppure sarebbe fuorviante ridurre il personaggio a questo e assimilarlo ai suoi predecessori. Si veda quel che sta succedendo in Estremo Oriente, dove l’esibizione della forza militare si mescola con toni ultimativi nei confronti di quello che dovrebbe il principale alleato nella regione. Sì, proprio la Corea del sud, che s’appresta a eleggere un nuovo presidente, e nei sondaggi è in testa il candidato favorevole al dialogo con Pyongyang, e non è certo il cocco degli americani. Trump usa parole molto dure sul U.S.-Korea Free Trade Agreement con Seul, che definisce «orribile» e intende cancellare perché sfavorevole per l’America. Aggiunge poi che la Corea del sud dovrebbe pagare la sua parte, per lo spiegamento di un nuovo sistema missilistico puntato verso la Corea del nord. Contemporaneamente, Rex Tillerson ragiona pacatamente con Fox News sul regime nordcoreano, garantisce che Washington non è interessato a un regime change a Pyongyang, aprendo così la porta al dialogo diretto con Kim Jong-un. Può sembrare la vecchia pratica del bastone e la carota, in realtà è l’uso disinvolto, proprio dell’uomo d’affari (come è anche Tillerson), di tutti gli strumenti a disposizione per raggiungere un obiettivo. Nel caso di Trump quello militare è funzionale al fine di contenere la forza economica dei due giganti asiatici, la Cina e la Corea del sud, ma anche il Giappone, usando a questo scopo la Corea del nord come snodo strategico: sembra il nemico numero uno ma è la pedina di un gioco più ampio.

La pericolosità di questo approccio è che non corrisponde né a una strategia né a una visione ma a pura tattica, avendo però a che fare, Trump, con interlocutori che, diversamente dai suoi elettori più fedeli e acritici, non sono disposti a essere presi in giro, sotto la minaccia del dispositivo nucleare.

E tutto questo avviene nei primi tre mesi di presidenza. Che cosa ci riservano i prossimi 45 mesi?