Ieri un nuovo comunicato nordcoreano ha rialzato la tensione in Asia Orientale. Per l’agenzia nazionale Kcna, Pyongyang ha dichiarato che il dispiegamento della portaerei USS Carl Vinson nelle acque coreane dimostra che «gli spericolati movimenti per l’invasione» hanno raggiunto una «fase di estrema serietà» e che la Corea del Nord è pronta a difendersi «con la forza delle armi».

E Trump ha insistito: «Pronti a risolvere il problema anche senza la Cina». Di fronte alla minaccia di un conflitto armato nella penisola coreana, abbiamo chiesto ad Antonio Fiori, tra i massimi esperti della Repubblica Democratica di Corea e docente di International Relations of East Asia all’Università di Bologna, di decifrare questo passaggio geopolitico.

Come siamo arrivati a questo punto?

Siamo di fronte alle evoluzioni di una situazione gestita male già dall’amministrazione Obama, fondata sulla cosiddetta «pazienza strategica»: aspettare che la soluzione del problema nordcoreano si risolva con un collasso interno del regime.

La «pazienza strategica» non è servita a nulla se non a far guadagnare tempo alla Corea del Nord e permetterle di raggiungere una gestione degli ordigni nucleari e del programma missilistico assolutamente avanzata. Alla Corea del Nord è stata fatta sempre la solita richiesta: denuclearizzare, per poi sperare di far ripartire qualche forma di dialogo.

La Siria da questo punto di vista, e i nordcoreani lo sanno benissimo, ha dimostrato in maniera virulenta cosa succederebbe alla Corea del Nord se si denuclearizzasse: se dovesse continuare a creare problemi, verrebbe rasa al suolo immediatamente. Chiaramente non sto dicendo che gli ordigni nucleari nordcoreani siano un fattore positivo per la stabilità dell’area; sono e rimangono una minaccia per l’intera Asia Orientale, ma la questione nordcoreana, a tutti gli effetti, viene puntualmente utilizzata come espediente per occuparsi di altro.

Prendiamo per esempio il Thaad, il sistema antimissilistico statunitense in fase di installazione in Corea del Sud: dagli studi fatti si è visto che il Thaad non garantirebbe una difesa completa della Corea del Sud in caso di un attacco missilistico proveniente da Pyongyang. E allora perché gli Stati Uniti lo stanno imponendo in quella regione? Pechino non ha tutti i torti a denunciare un’ingerenza nell’area, essendo il Thaad dotato di un radar che, tra l’altro, permetterebbe a Washington di guardare costantemente «in casa d’altri».

La Corea del Sud, per ora senza un governo eletto e in attesa delle elezioni il 9 maggio, è trascinata in una crisi internazionale nel bel mezzo di un passaggio molto delicato.

Dal punto di vista della Corea del Sud, questo è il momento meno opportuno per arrivare a decisioni potenzialmente incontrollabili. Se il prossimo 9 maggio, come sembra pronosticato dalla stampa sudcoreana, il candidato liberale Moon Jae-in vincerà le elezioni, il paese potrà riprendere in mano le redini dei rapporti con la Corea del Nord. Moon ha già dichiarato che, in caso di vittoria, il primo viaggio all’estero che farà non sarà né in Cina né negli Stati Uniti, ma cercherà di andare in Corea del Nord. Si tratterebbe di un cambio radicale dell’approccio sudcoreano al problema del nord.

Gli Usa accusano spesso la Cina di «non fare abbastanza» per risolvere il nodo della Corea del Nord. Pechino, pur pronta a nuove sanzioni contro Pyongyang insieme alla Corea del Sud, ieri è stata di nuovo attaccata da Trump: «Se la Cina non risolverà il problema, lo faremo da soli». Che ruolo gioca Pechino ora?

Gli americani non hanno una visione corretta della situazione. Se dal punto di vista economico la Corea del Nord è assoggettata all’interscambio commerciale con la Cina, da almeno 40 anni è chiaro a tutti che politicamente la leadership cinese non può agire sul cambiamento nordcoreano, non glielo lasciano fare.

Per i cinesi, se il regime deve cadere, dovrà essere una caduta controllata e politicamente gestibile. Una penisola coreana unificata sotto l’egida statunitense per i cinesi sarebbe un problema irrisolvibile. Wang Yi, ministro degli esteri di Pechino, aveva avanzato una proposta: sospendete le esercitazioni militari congiunte tra Seul e Washington, considerate da Pyongyang prove generali per una futura invasione, e noi facciamo in modo di riportare i nordcoreani a un tavolo negoziale.

La risposta è stata: noi non lo prendiamo neanche in considerazione. Quindi, no al dialogo proposto dalla Cina, nessun seguito alle aperture di Kim Jong-un rimanendo fermi sull’imperativo della denuclearizzazione: come hanno intenzione di gestire la questione nordcoreana gli Stati Uniti? A questo punto non rimangono molte strade se non un attacco militare.