Giorgio Parisi, Premio Nobel per la Fisica 2021, è stato a lungo un collaboratore assiduo del manifesto. I suoi articoli vanno dal 1983 al 2012, e si possono trovare qui. Ripubblichiamo oggi un commento del 30 settembre 2009, 12 anni fa, che sembra – purtroppo – scritto oggi.

Sta diventando un luogo comune affermare che per lo sviluppo dell’Italia risorse essenziali sono la ricerca (sia pubblica che privata), il trasferimento industriale dei risultati e l’innovazione. Però sembra che il potere politico non ne abbia tratto le necessarie conseguenze.

È fondamentale il livello dell’istruzione impartita nelle istituzioni pubbliche, sia nelle scuole primarie e secondarie, sia nell’università (lauree e dottorati). I ventilati tagli alla scuola pubblica (di cui si è parlato nei giorni scorsi) fanno pensare che alcuni politici, ahimé anche di sinistra, non abbiano capito che la diffusione e la qualità dell’istruzione non sono un lusso, ma che anzi peggiorarne il livello rispetto a quello degli altri paesi è il modo più sicuro per affondare le capacità produttive italiane.

E non è un problema solo economico.

L’essenza di un regime davvero democratico si misura nelle opportunità che è in grado di offrire ai suoi cittadini. L’istruzione pubblica gioca un ruolo cruciale: abbassarne il livello rischia di permettere solo a un numero ristretto di privilegiati di ricevere una formazione adeguata. Bisogna investire di più nella scuola e favorire le persone con difficoltà economiche facendo stanziamenti seri nelle borse di studio e nelle case dello studente.

Lo stesso problema è presente nelle università e negli enti di ricerca, dove negli ultimi 5-10 anni si sono fatte pochissime assunzioni.

Non sarebbe giusto se la generazione che ha adesso 30-35 anni fosse gravemente svantaggiata: sarebbe una lesione insanabile al diritto che tutti i giovani devono avere di realizzare le loro scelte – se commensurabili alle loro capacità – a prescindere dalla loro fortuita data di nascita.

L’unica soluzione consiste nel finanziare per i prossimi dieci anni un flusso costante di 2.000 nuove posizioni l’anno di ricercatore nell’ambito di una programmazione decennale, che impedisca pericolose oscillazioni nel flusso di nuove leve. Tuttavia sarebbe deprimente se gli studiosi decisamente migliori della media si vedessero passare davanti persone insignificanti per motivi clientelari.

Evitare queste degenerazioni è un problema fondamentale nell’ambito universitario. La valutazione è uno strumento essenziale per raggiungere questo scopo. Essa deve essere fatta sia sui progetti futuri, sia sulle attività svolte; deve abbracciare tutte le attività delle università: ricerca, didattica e scelta delle persone da assumere. Ma è cruciale che la valutazione abbia effetti concreti e che le variazioni dei finanziamenti alle varie università dipendano fortemente dai risultati della valutazione.

Solo basandosi su una valutazione affidabile è possibile orientare il flusso di risorse verso l’università e la ricerca in maniera tale che fare spazio al merito diventi, per le singole istituzioni, più conveniente che fare scelte nepotistiche. Per evitare l’autovalutazione e comportamenti del tipo «una mano lava l’altra» bisogna affidarsi a persone esperte, ma non coinvolte nelle attività di ricerca italiane: i valutatori devono essere quindi in maggioranza stranieri, così come accade nel resto del mondo.

Anche la didattica nella scuola (università compresa) è un punto dolente. Molti di noi ricordano professori eccellenti, che si dedicavano con grande passione all’insegnamento e professori che invece cercavano di lavorare il meno possibile. Non solo tutte e due le categorie sono pagate ugualmente, ma addirittura non esiste nessun criterio di valutazione attendibile del loro vero valore didattico.

E non può esistere un tale criterio finché gli studenti saranno muti e non verranno consultati. Bisogna far riempire agli studenti questionari sui corsi, chiedendone i pregi e i difetti e far assegnare punteggi differenziali per i vari parametri e rendere pubblici i risultati dei questionari. Così si dà un meritato riconoscimento pubblico agli insegnanti che si dedicano al loro lavoro e si stimola l’amor proprio degli altri insegnanti.

Tutto ciò può sembrare un dettaglio, ma in realtà ha un significato politico molto profondo.

Uno dei punti fermi che separa la sinistra dalla destra è la convinzione che lo stato deve essere in grado di erogare servizi di buona qualità a tutti i cittadini, in maniera da garantire un livello minimo per tutti.

Lo stato sociale oggi è sotto attacco e non è difficile capire il motivo: se si guarda alla qualità del servizio erogato in molti ospedali pubblici, viene la voglia di pensare che i soldi dati allo stato per questo scopo sarebbero stati investiti molto meglio nel privato.

La sinistra può vincere la sua battaglia solo se dimostra che i servizi pubblici a tutti i livelli possono essere gestiti con la stessa efficacia di quelli privati e che la parola «pubblico» non è il sinonimo di «scadente».

Per ottenere questo risultato è necessario che i cittadini percepiscano concretamente che le strutture pubbliche sono al loro servizio, che la loro opinione è importante e conta nel processo decisionale su quello che funziona e su quello che quello che va cambiato.

Passare da uno stato che controlla il cittadino a un cittadino che giudica e valuta lo stato non è un’operazione indolore. Le resistenze sono tante e non è facile vincerle mediante un decreto: è necessario cambiare mentalità.