Fin dal suo esordio, ormai lontano nel tempo, con il mostro di Vigevano (Pequod, 1999), Piersandro Pallavicini ha abituato i lettori ad un’ironia dissacrante, ma mai accompagnata dal cinismo, che scrutando tra le immagini della vita quotidiana riesce a cogliere gli involontari, ma irresistibili risvolti comici e intrinsecamente «mostruosi» che riguardano le abitudini di gran parte di noi. Per non dire di tutti.

CON QUESTI STRUMENTI ha guardato all’intero Paese, ai suoi vizi e alla sua recalcitrante disponibilità ad accettare anche il più piccolo cambiamento, la pigrizia culturale che spiana la via ai pregiudizi. Così, forse non a caso è a questo chimico prestato alla letteratura che si devono due dei romanzi (African Inferno, Feltrinelli, 2009 e A braccia aperte, Edizioni Ambiente, 2010) che hanno saputo raccontare la nuova Italia dell’immigrazione, senza indulgere nella retorica dei buoni sentimenti ma senza chiudere il cuore (e la porta) all’idea di un futuro diverso.

Presentata in questi giorni al Salone di Torino – venerdì 15 l’autore ne discuterà con Bruno Gambarotta al Caffè letterario del Lingotto alle 13.45 – l’ultima fatica di Pallavicini, L’arte del buon uccidere (Mondadori, pp. 170, euro 17), fa un passo ulteriore nella direzione di questa sorta di critica radicale del presente travestita da commedia che definisce il suo percorso.

L’IRONIA, È IL CASO DI DIRLO, è portata in questa circostanza alle estreme conseguenze. Quello che Pallavicini stila è infatti un vero e proprio catalogo «delle mille e una micidiali varianti di rompiscatole» la cui scomparsa dalla faccia della Terra potrà anche non darci gioia, ma potrà perlomeno alleviare le nostre sofferenze. La strada, in questo senso, sembra obbligata: «probabilmente non salverà la vostra anima – spiega lo scrittore -, ma eliminare con la giusta procedura il rompiscatole di turno darà a noi, che l’abbiamo dovuto sopportare, quel poco di soddisfazione che vale almeno da risarcimento morale».

Se la vita è già dura, davvero si chiede Pallavicini, «dobbiamo sopportare anche la presenza dei supponenti, dei prevaricatori, dei precisini, degli attaccabottoni, degli attaccabrighe, dei boriosi, dei falsi umili, dei veri arroganti, dei passivo-aggressivi, degli aggressivo-aggressivi, degli approssimativi, degli ignavi, degli sbruffoni, dei viscidi, dei volgari, dei meschini». La risposta al dirimente quesito è articolata in 21 capitoli che setacciano tipologie e abitudini sinistramente invasive del nostro vivere civile (e sereno). Da «Odio tutti (ovvero il razzista ma anche di più», alla «Complottista paranoide scientifico-ossessiva», fino all’«Incolto che ti dà del radical chic a sproposito», passando per i sempreverdi «Lei non sa chi sono io», «Il So tutto da bar» o ««L’evoluzione di quelli che vi facevano vedere le diapositive delle vacanze».

GLI ULTIMI ad essere monitorati sono quelli che Pallavicini chiama «gli Svelati dal Covid-19», che hanno approfittato della pandemia per mostrare la loro vera natura. La casistica è varia, ma basta un «sottogruppo» per definire l’orizzonte: «Quelli che all’inizio della pandemia prendevano per i fondelli chi si preoccupava ed erano tutto un “mannò, è solo un’influenza un po’ più fortina”. Chiudeteli in una gabbia con una tigre. Se ne lamenteranno spaventati. Voi ditegli così: “Mannò, è solo un gatto un po’ più grossino”».