Sul referendum costituzionale, non sarà facile per Renzi venire a capo di due insanabili contraddizioni: quella dello slittamento dell’oggetto dal merito al giudizio sul governo; e quello della effettiva centratura del confronto sui contenuti qualificanti della riforma.

Egli si è reso conto dell’errore di avere personalizzato e politicizzato a dismisura il referendum quando, azzardo, immaginava che ciò gli giovasse, che la propria popolarità rappresentasse una decisiva carta vincente. Una presunzione/illusione fallace già allora, quando tutte le rilevazioni mostravano che egli era apprezzato da un terzo degli italiani (non è poco, per chi guida il governo), ma non dai suoi due terzi.

Una personalizzazione che, come alle amministrative, aggrega il fronte antagonista. Dunque, macchina indietro: ora la parola d’ordine è quella di concentrarsi sul merito, di tenere un profilo basso, di non proclamare più solennemente che in gioco sarebbe il governo e persino l’avventura politica del premier.

Tuttavia – ecco il punto – non solo la retromarcia è tardiva; non solo ne va della credibilità di una leadership che tutta si è affidata alla retorica della sua differenza rispetto ai politici professionisti attaccati alla poltrona; ma soprattutto quella anomalia/forzatura aveva e ha un suo fondamento nella genesi del governo e della legislatura. Come usa rammentare, senza che però se ne colga la contraddizione, fu Napolitano, rieletto al Quirinale, a fare della riforma costituzionale la ragion d’essere della legislatura e dei due governi che si sono succeduti, Letta e Renzi. Doppia contraddizione che rappresenta il peccato d’origine insanabile della riforma.

Primo: quel (questo) parlamento, eletto con il porcellum dichiarato incostituzionale, è certo legittimo, ma non aveva e non ha l’autorevolezza per varare una grande riforma costituzionale. Che è cosa diversa da puntuali adeguamenti o dalla legislazione ordinaria. Tantomeno se poi, quella grande riforma, è varata da una stretta e ondivaga maggioranza. Secondo: i governi non possono darsi come ragion d’essere una grande riforma costituzionale, che è materia eminentemente parlamentare.

Anomalia genera anomalia: dunque Renzi sbaglia ma, per paradosso, ha anche ragione quando osserva che se passa il no il governo deve andare a casa. Appunto perché, sbagliando, Napolitano e lui (ma prima di lui Letta) hanno fatto della riforma costituzionale la ragion d’essere del governo. Con il risultato, in aggiunta, di non incoraggiare convergenze più larghe su materia distinta da quella che qualifica un governo. Come fu alla Costituente, che sopravvisse a divisioni politiche ben più profonde, quelle del mondo diviso dalla guerra fredda, e chiuse con una maggioranza del 90% dei suoi membri.

La seconda contraddizione è quella che inibisce di centrare davvero il confronto sul merito della riforma. Oggi è un mantra suo, della Boschi, di tutto il Pd. E’ un coro a dire discutiamo del merito. Salvo poi declinarlo più o meno così: le indennità, la casta, i rimborsi ai consigli regionali, il Cnel …. Lo stesso titolo della legge di riforma è il seguente: «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione».

Trovo intellettualmente umiliante motivare la riscrittura di 47 articoli in modo così smaccatamente demagogico. Del resto, nell’ultimo e definitivo passaggio alla Camera, Renzi così si espresse: «So che la campagna referendaria non discuterà soltanto di contenuti, devo essere franco con voi, anche per mia personale responsabilità, perché nel dibattito della campagna elettorale che questo governo farà, io in prima persona, a viso aperto …. non discuteremo soltanto di singole norme o di valutazioni giuridiche, non citeremo Mortati o La Pira, discuteremo anche di argomenti più demagogici, più popolari, spero non populisti» (?).

Va apprezzata la franchezza, che tuttavia già faceva presagire quanto poco si potesse confidare nell’appello a discutere del merito. A che si argomentasse circa una buona riforma. Su queste basi, non sorprende che uno degli argomenti più ricorrenti, anche da alte postazioni, sia quello francamente debolissimo secondo il quale altrimenti non si farebbe nulla.

Davvero, in materia di Costituzione, l’importante è fare, magari male, e non piuttosto fare bene? Se vincesse il no, non saremmo privi di regole, avremmo la Costituzione vigente. Non sarà la più bella del mondo, ma ci ha accompagnato dignitosamente per settant’anni. L’onere della prova sta in chi deve convincerci che la riforma Boschi la migliori. Possibilmente non con la demagogia.

* L’autore è deputato del Pd