I «consigli non richiesti» che Gian Giacomo Migone ha rivolto alla diaspora di sinistra possono essere variamente giudicati, ma certo è apprezzabile la preoccupata consapevolezza dell’occasione perduta (il manifesto 15 dicembre). Non mi pare, però, ch’egli colga il senso profondo delle ragioni dell’accaduto limitandosi alle manchevolezze dei singoli politici che hanno operato in quella vicenda.

Anche chi scrive questo articolo aveva sperato che, mediante un itinerario profondamente innovativo sia sul piano programmatico che sul piano del metodo (quello suggerito dal Brancaccio era un’accettabile base di partenza), si potesse arrivare alla costruzione di una lista unitaria non contraddittoria con un altro percorso, strategico e di più lungo periodo. Dice oggi Montanari; «Non c’è traccia di rivoluzione culturale (…). Sembra mancare lo spazio per costruire qualcosa che non sia un piccolo Pd senza giglio magico. (Uffington Post, 15 dicembre). Se Montanari è coerente difficilmente potrà seguire il consiglio di Migone e aderire «alla lista di Liberi e Uguali». Se fosse stato più coerente nel recente passato, forse si sarebbe evitato il parto di «quel piccolo Pd senza giglio magico».

Comunque proprio la mancanza di quella «rivoluzione culturale», cioè di un rovesciamento delle categorie di pensiero che hanno governato la prassi politica del centrosinistra e della sinistra dagli inizi degli anni Novanta. è la chiave per capire gli esiti disastrosi del percorso che ha avuto inizio al Brancaccio. L’inadeguatezza di tanto ceto politico della sinistra ne è piuttosto il corollario.

Si fa sempre più fatica ad adoperare la parola «sinistra» che ormai, per la sua pressoché completa genericità, ha perduto ogni valore denotativo. Se non abbiamo termini sostitutivi, è necessario, per un minimo di chiarezza e rigore nel ragionamento politico, dare al vocabolo struttura e determinazioni non in astratto ma nella concretezza di una lunga vicenda storica. La storia del movimento operaio, connessa alla dimensione culturale delle teorie critiche, non può non essere il punto di riferimento per una sinistra che deve ridefinire i suoi «fondamentali». Il modo di essere davvero «nuovo» per gli eredi di quella storia consiste nel confronto con il «nuovo» dei processi di accumulazione del capitale. E dunque prioritariamente con la rivoluzione neoliberale.

Costruire un ordine è un fatto rivoluzionario e i meccanismi della sua costruzione e del suo esercizio di egemonia devono essere realmente compresi per delinearne le possibilità di antitesi. Senza questo compito, relativo proprio ai suoi «fondamentali», sinistra rimane soltanto un puro «soffio di voce».

L’ordine, dunque, è il concetto intorno a cui si costruiscono teoria e programma neoliberali che convergono nel compito di formare, appunto, un ordine giuridico come costituzione economica. I neoliberali, infatti, a differenza dei liberisti classici, non credono che il mercato sia un ordine che si autoregoli senza nessun intervento politico-giuridico.

È possibile allora che coloro i quali fin dagli anni Novanta, tassello dopo tassello, hanno dato un contributo essenziale all’affermazione di tale ordine, possano costituirsi improvvisamente in protagonisti di una «rivoluzione culturale» la cui sostanza consiste nella negazione, alle radici, dei presupposti di quella antitetica «rivoluzione»?

In questi giorni negli organismi europei a ciò deputati, fuori da ogni controllo democratico, si sta decidendo sulle forme migliori per incardinare, entro il 31 dicembre, nei trattati Ue il Fiscal Compact già inserito nella costituzione italiana con il contributo determinante dei promotori della scissione «a sinistra» del Pd. Un altro essenziale tassello dell’ordine neoliberale. Non è un caso che, su una questione tanto dirimente, all’interno del «nuovo» assemblaggio politico prevalga il silenzio, o flebili e marginali voci.