È questione di giorni e Mubarak potrebbe essere rilasciato. La procura del Cairo ha deciso ieri di non presentare richiesta di appello dopo il proscioglimento disposto dalla Corte penale nel caso di abuso di potere per uso di fondi pubblici nei lavori di ristrutturazione del palazzo presidenziale.

È arrivata ieri anche la richiesta di scarcerazione in riferimento al processo sui beni ricevuti in donazione da Mubarak dal quotidiano filo-governativo Al-Ahram, che, secondo i suoi avvocati, sarebbero stati restituiti interamente dall’ex rais. Se alcune voci danno il vecchio Hosni in partenza per Sharm El-Shiekh già di oggi, contro il presidente che ha governato l’Egitto per trenta anni resta in piedi il divieto di espatrio. E per la prima volta il movimento di raccolta firme per le dimissioni di Mohamed Morsi Tamarrod (rivolta), si è schierato contro l’eventuale scarcerazione di Mubarak, definendola «un crimine contro la rivoluzione del 25 gennaio».

Tuttavia, l’udienza decisiva in merito alla detenzione dell’84enne ex rais, che dura da due anni e mezzo, sarà il 25 agosto prossimo, quando la corte del Cairo deciderà in riferimento all’appello per il secondo processo in cui Mubarak è accusato di aver ordinato di sparare sui manifestanti. Era il 2 giugno 2012, quando Mubarak e il suo ministro dell’Interno Abib El-Adly vennero condannati all’ergastolo, con il proscioglimento dei vertici della polizia. Anche se lo scorso gennaio l’istanza presentata dagli avvocati dell’ex presidente alla Corte di Cassazione ha azzerato il processo.

La scarcerazione di Mubarak era attesa ben prima del colpo di stato militare del 3 luglio scorso. Ma è il segno evidente del nuovo corso in Egitto dopo la riabilitazione degli uomini del vecchio regime. Su questo punto, il leader dell’opposizione Hamdin Sabbahi ci ha detto: «Alcune delle masse che hanno marciato nel 1952 hanno sostenuto Mubarak e non hanno partecipato alle manifestazioni del 25 gennaio, ma sono egiziani, che hanno avvertito il pericolo dei Fratelli musulmani, non solo per i loro interessi economici e politici ma per lo stile di vita che volevano imporre – prosegue Sabbahi – I Fratelli musulmani sono arrivati al potere e hanno spinto tutti gli egiziani a essere simili. Dicevano come vestirsi, come passare il tempo libero, come pregare dio. Volevano imporre la cultura della Fratellanza. L’ondata del 30 giugno è innocente, in merito all’accusa di appartenere al vecchio regime». Questo significa che in certi ambienti, anche di sinistra, è in atto un completo processo di revisionismo storico che riabilita una parte dell’ancien régime.

Gli egiziani non hanno l’abitudine di avere a che fare con ex presidenti. Infatti, Gamal Abdel Nasser è morto di infarto quando era in carica, mentre Anwar al-Sadat è stato assassinato. Gli ex leader politici non hanno vita facile qui, lo dimostra la detenzione di Mubarak, ma anche la partenza per Vienna, dopo aver rassegnato le dimissioni, dell’ex vice-presidente Mohammed El-Baradei e la sua conseguente incriminazione per «tradimento». E, prima ancora, gli esili forzati dell’ex vice-presidente Omar Suleiman e del secondo classificato alle presidenziali del giugno 2012 e ultimo premier dei tempi di Mubarak, Ahmed Shafiq. D’altronde gli egiziani non avrebbero potuto sopportare un Mohammed Morsi rimosso dal suo incarico e libero di circolare. All’inizio si parlava di un suo arresto per ragioni di sicurezza, poi sono arrivate le imputazioni di spionaggio, legami con Hamas e incitamento alla violenza.

Per questo un’eventuale libertà condizionata per Mubarak avrebbe il senso di ritorno al passato. Il principale successo del movimento sociale che ha coinvolto l’Egitto, a partire dal 25 gennaio 2011, è stata la rimozione e la prima condanna all’ergastolo dell’ex presidente per complicità nell’uccisione di circa 900 manifestanti durante le rivolte. Anche se già con l’avvio del nuovo processo nel gennaio scorso, si preparava l’impunità per il vecchio Mubarak. Con gli islamisti non hanno fatto niente per opporsi a questa eventualità dopo aver incassato l’approvazione della Costituzione (dicembre 2012) che sanciva il bando dei politici del Partito nazionale democratico (Pnd) dalla scena pubblica.

Soltanto l’ex ministro della Giustizia, Ahmed Mekky, commentò la sentenza di ergastolo sottolineando come le assoluzioni dei sei funzionari di polizia avrebbero aperto la strada al perdono per tutti gli imputati. A conferma di queste parole è arrivata nell’ottobre 2012 la sentenza che ha scagionato i leader del defunto Pnd dalle responsabilità nella «battaglia dei cammelli», il giorno più duro delle rivolte, in cui si scontrarono in piazza Tahrir i sostenitori e gli oppositori dell’ex presidente. Secondo la Corte, la maggior parte dei testimoni ascoltati nel processo era politicizzata. E quindi i temibili Safwat Sherif, ex presidente della Shura, e Fathi Sorour, ex presidente del Moghles Shaab (Assemblea del popolo) sono stati prosciolti.

Sembrava curioso che si volesse negare proprio la responsabilità della polizia nelle violenze. Ma ora tutto è chiaro. I poliziotti sono tornati a essere parte integrante del sistema che ha rovesciato gli islamisti mentre la furia popolare si scatena contro i Fratelli musulmani. Perché non considerare loro, continuamente rappresentati come «terroristi», responsabili anche dei morti, delle fughe dalle carceri e dei saccheggi seguiti alle rivolte del 2011, per una riabilitazione completa del vecchio regime?