Se sei immigrato a Parigi dal Congo-Brazzaville con un nome falso e ti aggiri per le vie della città un venerdì 13 con indosso un abito sartoriale verde elettrico abbinato a scarpe e cravatta bordeaux, può anche capitarti che all’improvviso piombi dal cielo una bionda che venga a sfracellarsi a un metro dai tuoi piedi, e che in men che non si dica tu finisca in carcere per omicidio…
Questa in sintesi la surreale trama dell’ultima apparizione italiana del congolese Alain Mabanckou Zitto e muori (per la casa editrice romana 66thand2nd), che tinge di noir le colorite e chiassose atmosfere del precedente Black Bazar (66thand2nd, 2010) annaffiandole di quel rosso sangue che il protagonista tanto detesta (al punto che, per sua ammissione, la sola vista della carne al sangue, il ketchup, la granatina e le arance rosse gli danno il voltastomaco).
Eppure, suo malgrado, l’ignaro e un po’ ingenuo ma di certo innocente Julien Makambo, alias José Montfort, si ritrova nel posto sbagliato al momento sbagliato con un appariscente vestito nuovo di zecca (che a lui nemmeno piaceva, ma che aveva comprato perché il negoziante, africano come lui, lo aveva convinto che era del colore della vita, della speranza e dell’ottimismo, e che se i francesi sono così tristi è perché si vestono di nero e grigio 365 giorni l’anno) per compiere una missione misteriosa che dovrebbe arricchirlo, ma che invece lo trasforma in un pericoloso criminale, capro espiatorio di un’intera comunità.
Nel romanzo riappaiono figure già note ai lettori di Mabanckou come quella del Sapeur, edonista nero appassionato di abiti firmati, che si veste alle Galeries Lafayette Opera o nelle boutique du Rue Faubourg Saint-Honoré, in una carrellata di indimenticabili personaggi, così unici ma così universali al tempo stesso, che già popolavano i microcosmi letterari di Verre Cassé, Memorie di un porcospino o African Psyco. La stessa graffiante satira sociale riaffiora dalle pagine di Zitto e muori, spassosa e irriverente sia nei confronti della comunità di espatriati africani che dei francesi bianchi, che li guardano ancora con sospetto e li giudicano secondo parametri e stereotipi razzisti duri a morire, come il saccente avvocato difensore di Julien-José, che gli parla dall’alto in basso e lo considera uno di quei negri analfabeti a cui bisogna spiegare le parole con dei sinonimi (salvo poi rivelarsi lui stesso un meticcio).
Qui è lo strampalato clan di Rue de Paradis a fare da sfondo alla vicenda tra le quattro mura di un monolocale sovraffollato da connazionali dello stesso José (il Vecchio, veterano del gruppo e loro mentore che parla per proverbi, il nordico «Mangiacoccodrilli», il musicista, il meccanico e l’agente immobiliare mancato), che divorano agnello e manioca mentre ascoltano rumba congolese a tutto volume. Nonostante le differenze mentali e generazionali, e le frizioni provocate dall’angusto spazio vitale e dalla competizione spietata per accaparrarsi soldi, abiti e donne, i componenti di questa variopinta comunità si sostengono l’un l’altro per sopravvivere nella «giungla parigina», rivelando quello stesso controverso sentimento di amore/odio per la città che li ospita che emerge dalle comunità di immigrati da ogni parte del mondo nelle metropoli occidentali (così evocativo di quella Londra amata/odiata dai caraibici di Sam Selvon in The Lonely Londoners e nel’opera poetica di Linton Kwesi Johnson, o la Brixton del nigeriano Biyi Bandele in The Street).
Da leggere tutto d’un fiato, Zitto e muori si snoda con un ritmo fluido e sostenuto che riprende quello del parlato congolese e dell’affabulazione orale africana, dando grande valore e peso alla parola, ma soprattutto conferendo un’importanza suprema al nome proprio nell’influenzare in maniera incontrovertibile le sorti di chi lo porta: «Mi chiamo Julien Makambo. Nelle settimane immediatamente successive al mio arresto, e anche parecchio prima che mi beccassero, la mia bella faccia e il mio altro nome, José Montfort, sono stati ogni giorno in prima pagina su quasi tutti i quotidiani di Francia e Navarra. Nella lingua che parliamo nel Congo-Brazzaville, il lingala, Makambo significa ’guai’. Non so come gli è saltato in testa ai miei genitori di mettermi un nome così, un nome che peraltro non è neanche quello della buonanima di mio padre, tantomeno quello di un’altra persona di famiglia. Ormai sono convinto che il nome influisce sul destino di chi lo porta. Se quel venerdì 13 non fossi andato con Pedro al ristorante L’Ambassade a conoscere un tipo che veniva da Brazzaville e che lui definiva ’molto importante’, forse non mi troverei da un anno e mezzo in questa cella di Fresnes, in detenzione provvisoria. E invece eccomi qua, quando uno si chiama Makambo le cose non sono mai così semplici».