Per l’inaugurazione hanno scommesso (giustamente) su Maidan di Sergei Loznista, racconto bruciante della piazza di Kiev che è stata la «miccia» della guerra tra Ucraina e Russia, di cui il regista prova a catturare pulsioni profonde, invisibili, e quelle contraddizioni poco evidenti nei gesti di chi la occupa al di là dell’attualità della cronaca. In chiusura c’è invece Sozialism, il sogno e l’incubo del ventesimo secolo orchestrati da Peter Von Bagh. Quest’ultimo divenuto omaggio postumo con la scomparsa, poche settimane fa, del direttore artistico del Cinema Ritrovato, uomo di sguardo raffinatissimo e riferimento teorico per molte generazioni. Nel mezzo ci sono la retrospettiva del documentarista olandese Johan Van der Keuken, autore di capolavori come Il bambino cieco (1966) o Amsterdam Global Village (’96), che nei suoi film si pone la sfida di abbracciare il mondo con la macchina da presa, mescolando narrazione e documentario, opere sperimentali e immagini intime. E un ricordo di Haroun Farocki con Respite (2007), girato nel campo di Westerbork, in Olanda, dove arrivavano gli ebrei in fuga dalla Germania nazista che dopo l’occupazione tedesca dell’Olanda diviene un «campo di transito». Il film è all’interno di una bella sezione dal titolo «Di fronte alla Storia – Visioni del XX secolo», in cui troviamo anche Prigionieri della guerra di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, riflessione sulla Prima guerra mondiale ben lontana dalle «celebrazioni» che si inseguono in questo anniversario, e non solo per la data del film – 1995.

 
Doclisboa, che si apre oggi nella capitale portoghese con la nuova direzione di Cintia Gil e Augusto M. Seabra, è divenuto negli anni – questa è la dodicesima edizione – un appuntamento obbligato per il documentario internazionale nelle sue espressioni più diverse, e in quell’allenamento a forzare i confini del «genere» oggi più che mai necessario nel rapporto tra le immagini e la realtà. Proprio qui la a retrospettiva 2014 appare quasi come una dichiarazione teorica, «Neroealismo e Nuovo realismo» in un’epoca nella quale la narrazione della realtà esplode in infiniti frammenti di ambiguità e mutevolezza. Come porsi di fronte al «tempo reale» della rete che amalgama conflitti, tragedie, rivolte? Cosa significa filmare una battaglia, una protesta, una rivoluzione quando le rivoluzioni sono divenute immagini a ripetizioni, e mentre sempre di più tutto appare uguale, il «vero» e il «falso», un talk show e un’intervista – è la questione che scorre nel meraviglioso Belluscone di Franco Maresco, nel cartellone del festival.

 
Dunque eccoci al Neorealismo, quello «storico» del Rossellini di Europa 51, e quello delle nouvelle vague che attraversano il mondo col Sessantotto e le lotte di liberazione da colonialismi, dittature e controllo a distanza, come le Filippine di Lino Brocka e il Brasile di Nesolon Pereira Dos Santos. Cosa li unisce? Intanto la scommessa di una «realtà» che non è, e mai può essere semplice instantanea, perché l’immaginario decostruisce, reinventa, libera in senso verticale e orizzontale teste e cuori.

 
Brocka, di cui il programma presenta uno dei film suoi più intensi meldrammi proletari, Manila negli artigli della luce, è stato e continua a essere un riferimento fondamentale nel cinema filippino, anche per quei cineasti come Lav Diaz che lo hanno rilanciato in questi anni. Da lui che tra i suoi «maestri» metteva Fellini o Clément, le generazioni successive hanno imparato l’idea di fare del cinema uno strumento per raccontare le vicende del proprio Paese utilizzando i generi – commedia, thriller, mélo, avventura per scardinare anche un’interpretazione di cinema-impegnato in senso idelogico. Brocka ama i suoi personaggi, soprattutto quelli femminili, e narra proletariato, sopraffazione, classi politiche corrotte, violenza in melò fiammeggianti. Lo stesso Pereira dos Santos, che è stato anche montatore di Rocha, l’altro grande protagonista del cinema novo, e nel Nord est del Brasile, quel luogo che come diceva Rocha se non lo conosci non sai nulla del continente brasiliano, ha radicato molta della sua poetica. Rio Zona Norte, che si vedrà al festival, è invece ambientato a Rio e affronta quel rapporto tra fare cinema e raccontare la vita.
Ci sono poi altri nomi imperdibili in questo itinerario, Ghatak o Amir Naderi del Corridore, l’ultimo film del regista girato in Iran prima di volare via come il suo protagonista verso l’America, dove vive ora. Fino a Pedro Costa di Ossos e a Teresa Villverde di Os Mutantes, due registi al centro delle nuove onde portoghesi, esplose negli anni Novanta, che hanno saputo trasformare in forma cinema la Storia coloniale e le ferite del presente.

 
Ciò che si dichiara, e che poi sembra essere il nocciolo della ricerca del Festival, disseminato anche nelle sezioni che raccolgono brevi film sulla Siria o sull’Ucraina, è appunto questa investigazione sul racconto della realtà, dentro un punto di rottura necessario che si oppone al suo uso strumentale (o ideologico) rivendicando invece in essa una continua invenzione di cinema.
In concorso troviamo, ad esempio. un nuovo film di Wang Bing, narratore della Cina contemporanea che per mostrarne le debolezze esaspera, fino all’insostenibile, il vissuto di miseria. È il caso di questo Padre e figli, nato come installazione all’interno della personale di cui è stato protagonista al Pompidou di Parigi, e poi montato come lungometraggio, costrueendo un ideale controcampo a Tre sorelle, il precedente film dell’autore con le bambine lasciate sole nel freddo affamato della campagna cinese.
Qui due ragazzini sono chiusi in un luogo di povertà estrema, tutto il giorno iluminato dallo schermo della televisione. Stanno sul letto, guardano i programmi che scorrono monotoni intanto che il padre è fuori al lavoro. Intuiamo in fabbrica, intorno il paesaggio è metropolitano e industriale. I ragazzini e il padre scambiano poche parole sul letto che i piccoli hanno occupato tutto, cercando un poco di spazio in quel buco riempito di cose, dove scorazzano cagnolini.

 
Non è tanto l’osservazione di una marginalità che è l’altra parte del capitalismo forzato, quanto il fatto di catturarne momenti intimi, una sorta di quotidiano in cui gli esseri umani che abitano questo paesaggio sembrano completamnte immersi.
Nella sezione portoghese una sorpresa folgorante arriva da Flor Azul primo di film di Raul Domigues La scommessa qui è invece il racconto di un rito antico, eppure presente quale il lavoro in campgna, filmando luoghi, persone e animali che li abitano, movimenti che appaiono arrivare da un tempo remoto. C’è nel film di Domingues qualcosa di magico e insieme di semplicissimo, una grazia che non diventa mai ammiccamento, è l’epifania di uno sguardo complice come una vecchia canzone, consapevole del gesto di filmare.