Chissà se i protagonisti del romanzo con cui David Leavitt è tornato dopo alcuni anni di silenzio, Il decoro (Sem, pp. 350, euro 17, traduzione di Fabio Cremonesi e Alessandra Osti) e dopo che ne aveva fatti passare almeno cinque tra i suoi due precedenti, hanno letto il recente e discutibile appello sottoscritto da 150 intellettuali, tra accademici, giornalisti e scrittori contro quello che considerano come l’abuso del politically correct?

NON SI TRATTA di un quesito capzioso se si considera che la storia intorno a cui ruota il libro mette in scena l’inquietudine e i dubbi di un gruppo di ricchi liberal newyorkesi di fronte all’elezione di Donald Trump. Nel farlo, come in un sinistro gioco di specchi, non emergono però solo le loro preoccupazioni nei confronti della rozza minaccia incarnata dal tycoon, timori che dopo quattro anni passati alla Casa Bianca lo stesso Trump non ha fatto che confermare, ma anche tutta l’incapacità di misurarsi davvero con il mondo che si trova oltre l’orizzonte di Park Avenue o delle seconde case immerse nel verde del Connecticut.

MENTRE SONO RIUNITI nel salotto firmato dell’appartamento di Eva Lindquist, la glaciale protagonista dell’intera vicenda, un pugno di personaggi si interrogano sulla possibilità di «chiedere a Siri come assassinare Trump», affidando così all’assistente virtuale di una nota marca di telefonini l’estrema proiezione delle proprie ansie. Ma dietro l’orrore provato nei confronti del fascista cafone che si appresta – siamo inizialmente alla fine del 2016 – ad assumere le proprie funzioni, si respira una ripugnanza tutta snob, simile a quella che spinse Hillary Clinton a definire i sostenitori del suo avversario come un basket of deplorables, un cesto di miserabili. Forse uno dei momenti più significativi delle presidenziali di quattro anni or sono, quando si cominciò a pensare che l’ex first lady non poteva essere del tutto certa di aver già archiviato a proprio favore la pratica delle elezioni.

David Leavitt

UN CLIMA su cui Leavitt ironizza apertamente, lungo le pagine di un romanzo che ancora una volta è costruito come una commedia, a partire da un intreccio inestricabile e irresistibile di dialoghi arguti e semiseri, nei quali i personaggi finiscono, talvolta senza rendersene conto, per prendersi gioco di se stessi. Così è il sorprendente vicino di casa di fede repubblicana a suggerire a Bruce, il marito di Eva, che in fondo Trump non è proprio un hillbilly, ma è fatto di una pasta che anche lui dovrebbe conoscere. «Guarda, capisco benissimo perché non ti piace. Davvero. Ma capisco anche lui. Voglio dire, certo, è rozzo, ma almeno è un rozzo dei nostri, capisci cosa intendo, no? Rozzezza newyorkese».

Eppure, per sottrarsi al pericolo incombente, Eva arriverà ad immaginarsi altrove, lontana da quel Paese in preda alla follia trumpiana che le appare destinato a seguire una trama simile a quella immaginata da Philip Roth per Il complotto contro l’America. La terra della salvezza e della libertà ha in questo caso le sembianze di un lussuoso appartamento veneziano con vista sul Canal Grande. Per questa via Il decoro del titolo finisce per definire il profilo di un’autentica ossessione: quella dei lavori di ristrutturazione della casa da affidare a Jake, l’arredatore di interni che ha già firmato tutte le dimore di Eva, tra Manhattan e il Connecticut.

MA IL TERMINE si presta anche ad inquadrare in forma più generale i personaggi e l’intera vicenda. Perché è proprio «il decoro» che sembra mancare prima di tutto al nuovo presidente, al quale questi liberal inquieti rimproverano sì, e a ragione, gli accenti razzisti e le pulsioni aggressive, ma si sarebbe portati a credere anche il mancato rispetto del bon ton della politica, quasi la pratica dei diritti sia più cosa di etichetta che di prassi e norme. Allo stesso modo, attraverso i riti delle loro serate a tema, la liturgia di relazioni codificate sempre secondo un medesimo schema, la mancanza di empatia verso gli altri, che si manifesta fin dentro le coppie, è la facciata di queste esistenze plasmate nello scenario dell’Upper East Side di New York che sembra destinata a sbriciolarsi frammento dopo frammento. Del loro «decoro» alla fine del libro qualcosa ancora resiste, ma certo un po’ ammaccato.

Quando, nel 1984 l’allora 23enne David Leavitt pubblicò il suo celebre esordio, la raccolta di racconti Ballo di famiglia, si disse che ad accomunare i personaggi fosse il loro desiderio di fuga e la delusione profonda per la situazione in cui si trovano a vivere. Erano gli anni Ottanta dello yuppismo rampante e della presidenza Reagan. Trentasei anni dopo, confermandosi come uno dei grandi narratori della società americana, lo scrittore non ha ancora trovato una buona ragione perché la loro ricerca si fermi.