La crisi della democrazia italiana, aperta da due decenni, si è avvitata in una spirale brutta e pericolosa, da qualunque punto di vista. Le responsabilità sono molteplici, ma la causa – per certi versi – è unica e va ben oltre i confini nazionali.

Le responsabilità principali sono, per quanto mi riguarda, del Pd, che in un decennio di governo e di maggioranza, a vario titolo, ha lasciato, con le proprie politiche, il campo dell’egemonia e del consenso alla destra estrema; più si identificavano con le politiche neoliberiste o securitarie e più quella cresceva, prima sotto pelle, poi nelle urne. Un partito che – sull’altro versante – in dieci anni di governo ha visto e fatto crescere una forza come il Movimento 5 Stelle, regalandogli milioni di elettori, perde per manifesta incapacità.

Nei tempi più ravvicinati, è del tutto evidente che la Lega (usando il nome di Savona) ha giocato con istituzioni democratiche di cui non si sente parte, che voleva e vuole destrutturare; ha usato (e forse continuerà ad usare) quelli che volevano aprirle come una scatoletta, per provare a sfasciarle definitivamente. E il presidente della Repubblica non ha fatto altro che servire a Salvini, su un piatto d’argento, questa opportunità ulteriore; ma, soprattutto, non ha fatto nulla di diverso da quanto aveva già fatto il suo predecessore, continuare, cioè, in una politica di subalternità sostanziale al mercato liberista e alle sue compatibilità (come se lo spread fosse, se non un dato naturale, un principio costituente), determinando un vittimismo anti istituzionale di massa; mentre quel “governo del cambiamento” avrebbe fatto i conti, prima di tutto, con le proprie contraddizioni e con l’impraticabilità di un compromesso sommatorio. È una critica politica al presidente, niente a che vedere con gli attacchi fascisteggianti o con le richieste di impeachment, talmente ridicole che rientreranno da sole.

Quello che emerge dal fondo di questa vicenda è, però, altro. E cioè che la fine dell’età del compromesso sociale – per l’assenza di mondi antagonisti e per la maggiore ristrettezza della coperta – spinge le élite a comprimere e a subordinare gli spazi di democrazia, per certi versi a sospendere la democrazia rappresentativa. Può apparire più chiaro di come ce lo spiega la vicenda di queste ore? Non in Grecia (dove pure si sono consumati ricatti gravi ed espliciti), ma in uno dei Paesi, almeno sulla carta, più determinanti dello scenario economico-politico. In assenza di una terza via – tra sovranismi razzisti e sostanzialmente neofascisti e difesa dei privilegi delle élite – è inevitabile che la democrazia venga schiacciata o ridotta a un simulacro che ratifica senza decidere. Ecco perché serve, con urgenza, definire un programma della sinistra semplice, chiaro, radicale; che recuperi rapidamente terreno tra le masse esasperate ed egemonizzate dalla destra; che ponga la questione della trasformazione dell’Europa come priorità assoluta e della sovranità democratica come unica possibile via. È una porta stretta, strettissima, ma non ce ne sono altre. Parlare chiaro, perché (si perdoni la metafora) mentre la sinistra giocava al San Paolo (e litigava sulla tattica, sull’allenatore, sui convocati), il campionato vero – quello della comunicazione semplificata, della pancia e delle urla – si giocava, da anni, a San Siro e che gli spalti a Napoli fossero vuoti era inevitabile.

Se LeU saprà aprire questo sentiero difficile, oggi fino al voto e fino alle europee e negli anni a seguire, avrà un senso. Altrimenti il ciclo storico si chiuderà in modo definitivo e nel peggiore dei modi.