Scavare nei delitti avvenuti in famiglia significa dover rovistare, spesso, in un covo di rancori e intimità. Se poi si affronta, come ha fatto Franca Leosini nella puntata di Storie maledette andata in onda lo scorso 11 marzo su Raitre, il delitto di Avetrana, vuol dire mettere le mani in un ginepraio che scatenò in modo osceno la morbosa curiosità nazionale. La scomparsa di Sarah Scazzi, le interviste a valanga concesse dalla cugina Sabrina, la confessione di Michele Misseri che fece ritrovare il corpo, le sue ritrattazioni, i sospetti e le indagini su Sabrina e sua madre, la complicità dei media che sguazzavano in questa vicenda, tutto ciò trasformò per mesi il paese pugliese in un teatro mediatico di voyerismo del crimine. C’era gente che andava in gita la domenica a vedere i luoghi del misfatto: la villetta, le strade, il pozzo dove fu buttato il corpo. Era come se quel delitto avesse scatenato il bisogno collettivo di esorcizzare qualcosa che, proprio per essere avvenuto nella profonda provincia italiana e in una famiglia apparentemente come tante, poteva accadere a ciascuno.

Franca Leosini conduce Storie maledette dal 1994 ed è arrivata alla sedicesima edizione. Amata dal pubblico, con l’avvento dei social è diventata una star del web dove i suoi seguaci apprezzano soprattutto il suo stile pacato ma diretto e il suo linguaggio, detto anche leosinario con tanto di hashtag.

Però ci sono dei però e riguardano alcuni termini e frasi usate dall’amabile Franca nella puntata sul delitto Scazzi. Perché rivolgersi a Sabrina Messeri chiedendole: «Oltre a spianare i crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, che vita faceva?». Spianare i crateri? Che bisogno c’era di essere così sottilmente cattive? Quando Leosini ricostruisce l’incontro intimo in auto fra Sabrina e l’amico Ivano Russo, dice: «Tolti i fastidiosi vestiti, inizia fra voi un rapporto caldo, bollente. A dare lo stop a sperdimenti, fino a interrompere l’estasi, incredibilmente è Ivano. L’incauto giovanotto per frenare i suoi ardori lombari si rinforcava le mutande… Diciamolo, è un gesto a dir poco offensivo nei confronti di una donna». E perché? Magari a lei andava bene così.
Ora, sappiamo tutti che parlare di sesso in modo naturale e sciolto non è facile, soprattutto in tivù. Di solito, chi preferisce usare perifrasi, svolazzi verbali, metafore alate, aggettivi fantasiosi piuttosto che chiamare le cose con il loro nome, lo fa per nascondere un certo imbarazzo. Il risultato è che la pezza è spesso peggio dello strappo.

Nello specifico, era del tutto superfluo definire i vestiti fastidiosi, il rapporto caldo e bollente, l’eccitazione come ardori lombari, il rivestirsi con un rinforcare le mutande, un rapporto interrotto come un infortunio, senza considerare il tono giudicante con cui Leosini ha trattato questa parte della puntata e della vicenda, definendo più volte babbalona la sua intervistata per aver raccontato alle amiche fatti poco edificanti per una donna. Se c’era un argomento da trattare con la mitizzata misura leosiniana, era questo. Ciò dimostra quanto sia più facile parlare con elegante distacco di un delitto piuttosto che di sesso, uno dei più grandi misteri delle relazioni fra umani. Qualunque cosa pensi un giornalista o un intervistatore di quei tragici eventi e dei suoi protagonisti, resto convinta che il modo migliore per dare allo spettatore e al lettore gli strumenti per farsi un’opinione sia far emergere contraddizioni, stanare dubbi, mettere in fila i fatti. A meno che non si cerchi lo spettacolo, in questo caso un brutto spettacolo.

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