Tra gli incontri che da oggi a lunedì si succederanno al Salone del Libro di Torino, spostato di stagione ma infine riaperto dopo la sosta forzata dell’anno scorso, ce n’è uno che fin dal titolo si pone una domanda importante, «Più venduti o più letti?» (in programma questo pomeriggio alle 16.30 in Sala Magenta), meglio articolata nelle due righe di presentazione: «Bibliotecari, librai ed editori si interrogano su come costruire la classifica dei libri più letti».

E in effetti, mentre giustamente festeggiamo i dati che dimostrano come il mercato librario abbia reagito con energia alla crisi pandemica, vale la pena chiedersi quanto le cifre delle vendite corrispondano alle pratiche reali della lettura. O, per dirla, con un’altra domanda: chi legge cosa?

È intorno a questo interrogativo, ma muovendo da tutt’altra angolazione, che ruota l’intervento di Sophie Vershbow, vicedirettrice dell’area social media per Penguin Random House, uscito nei giorni scorsi su Lit Hub.

Per la verità lo spunto da cui prende avvio Vershbow è diverso: nel suo mirino ci sono infatti i commenti sarcastici di un personaggio della serie statunitense White Lotus – diffusa anche in Italia su Sky – nei confronti di due ragazze che a bordo piscina (siamo in un resort alle Hawaii) sono immerse nella lettura di testi di filosofia. Per fortuna, al giovanotto che chiede se davvero leggano quei libri, le amiche rispondono ironicamente di avere uno stylist per la scelta del guardaroba e un book stylist per la loro biblioteca.

«White Lotus è un’opera di finzione, ma ci sono uomini reali ancora convinti nel 2021 che le donne usino i libri come accessori di seduzione», osserva Vershbrow, sciorinando una serie di casi, uno più frustrante dell’altro. «La reazione più comune che ricevo quando leggo al bar è che lo faccio perché mi sento sola… a nessuno viene in mente che voglio semplicemente stare in mezzo alla gente godendomi tranquilla il mio libro», scrive per esempio Ginger dall’Ohio.

E molte volte, qui sta il punto, le osservazioni riguardano i libri stessi. Pare infatti, se vogliamo dare credito a Vershbrow, che il mondo sia pieno di aspiranti pigmalioni pronti a suggerire i titoli «giusti» che una ragazza intelligente dovrebbe leggere – possibilmente non romanzi, e sicuramente non romanzi rosa: «Molte lettrici con cui ho parlato sentono che i partner, direttamente o indirettamente, bollano le loro scelte di lettura come indegne di merito intellettuale senza nemmeno avere letto i libri in questione».

Ne viene fuori l’immagine di un mondo (solo letterario?) tuttora spaccato in due, dove le donne si trovano per l’ennesima volta dalla parte sbagliata. Esemplare, tra gli altri, il racconto di Jodi, che lavora per uno dei maggiori gruppi editoriali americani e che anni fa, passata a una collana di romance, è stata bersagliata dalle osservazioni sprezzanti di colleghi e di amici: «Perché lo hai fatto? Non vorresti lavorare su libri veri? Ma davvero leggi quella merda?».

Eppure, scrive Vershbrow, «a parte il fatto che tutti i generi possiedono in potenza qualità culturali, o comunque forniscono un intrattenimento, il rosa produce un’industria miliardaria che offre un poderoso puntello al catalogo di tante case editrici». Lo ha confermato sul Washington Post Angela Haupt, intervistando figure diverse del settore. Fra le altre, l’autrice afroamericana Beverly Jenkins: «Ci sono tante donne diverse che scrivono storie d’amore: biologhe, fisiche, cameriere, casalinghe… Tutte scrivono romanzi, e tutte leggono romanzi, e questo genera miliardi ogni anno. Siamo noi a tenere le luci accese nell’editoria».
Se ne parlerà a Torino?