Segregati per anni in un appartamento al sedicesimo piano dei project del Seward Park Extension, educati dalla madre Susanne, abilitata alla didattica domestica, i sette fratelli Angulo hanno vissuto sotto il dominio autocratico del padre Oscar che permetteva loro di uscire solo poche volte all’anno (nove quando andava molto bene, zero quando non andava bene per niente).

Il padre, peruviano, la madre, del Midwest, sono il precipitato di una stagione, quella libertaria degli anni Settanta, finita, paradossalmente, come parodia del modello autoritario cui ci si voleva contrapporre. Dedito a modo suo al culto Hare Krishna, Oscar ha chiamato i suoi figli Mukunda, Narayana, Govinda, Bhagavan, Krisna, Jagadesh e Visnu, l’unica sorella, afflitta da un ritardo.

Ossessionato dalle immagini e dal cinema, l’uomo ha filmato la sua famiglia (strani girotondi in mutande memori dei rituali di Otto Mühl) introducendo il cinema nel suo nucleo familiare, unico elemento attraverso il quale i ragazzi, nel corso di quattordici lunghi anni, hanno potuto avere contatto con il mondo esterno. Ed è proprio il cinema e i film che i fratelli Angulo amano visceralmente, al punto da rimetterli in scena autarchicamente negli spazi angusti dell’appartamento, ricreando con virtuosismo artigianale situazioni e oggetti di scena con grande inventiva e precisione (straordinario il costume di Batman quasi tutto di cartone).

 

Crystal Moselle, la regista, ha incontrato gli Angulo casualmente per strada, vestiti come i protagonisti de Le iene. Attraverso un arco di tempo di cinque anni (più o meno), ha ottenuto accesso alla loro vita e alla storia. Il problema di fondo di un film come The Wolfpack, strutturalmente molto simile ai true crime rimessi in scena da protagonisti e vittime, è proprio la presenza del cinema. Se la passione feticista degli Angulo per le immagini del cinema è comprensibilissima in quanto segno e proiezione di un altrove desiderato e temuto oltre che ritenuto irraggiungibile, la regista stessa, stando al film che ha realizzato, non riesce ad andare molto oltre il ritrarli come dei cosplayer disfunzionali.

Affascinata dall’inventiva dei ragazzi, sembra limitarsi all’inevitabile ma prevedibile raffronto con il modello hollywoodiano, conferendo al suo film il solito alone da success story hollywoodiana. Il cinema reinventato in uno spazio claustrale come rituale iniziatico sostitutivo di un processo di conoscenza altrimenti impossibile, non diventa mai elemento perturbante o di messa in crisi del dispositivo o dell’ideologia che lo alimenta, ma sempre e solo sua assolutizzazione. La regista, in definitiva, non sembra guardare i ragazzi con gli occhi della differenza, non vede e non tenta mai di vedere l’alterità di cui sono portatori, ma sempre e solo il cinema cui anche lei si riferisce.

The Wolfpack è vittima della mitologia del cinema. Se è legittimo che gli Angulo la venerino, da parte della regista sarebbe stato lecito un atteggiamento critico verso di essa invece che limitarsi superficialmente ad abbracciarne il valore liberatorio, tentare cioè di vedere oltre essa, invece che se stessa riflessa in essa per operare così una fuorviante similitudine con i protagonisti.

Non è un caso che nonostante l’accesso garantito alla sua macchina da presa, restino degli angoli bui nella vicenda della famiglia Angulo, della quale l’handicap di Visnu, per la maggior parte fuori campo, è l’indicatore più inquietante. Un fallimento paradossale e narcisistico che dice anche del respiro cortissimo di una certa idea di documentario statunitense che invece sembra vada per la maggiore.